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Agnolo Ambrogini, detto il Poliziano
Lamia

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C'era una volta un tale di Samo, che teneva scuola, il quale andava sempre vestito di bianco e in zazzera, aveva una bella, coscia d'oro, ed era nato e rinato più d'una volta. Il suo nome era Ipse; almeno così lo chiamavano i suoi scolari: ai quali, appena ammessi alla scuola, egli per prima cosa cavava la lingua. Se vi dico i suoi insegnamenti, vi fo scompisciar dalle risa; tuttavia abbiatene un saggiuolo. Non bucare il fuoco con la spada: non passar la misura della stadera: non mangiar cervello; e neanche cuore: non seder sopra lo staio: trapianta la malva, ma non la mangiare: non parlar di contro al sole: cansa la via maestra; va' per le scorciatoie: quando t'alzi di letto, abballina le materasse, che non ci resti l'impronta del tuo corpo: non portar anelli: anche fa' che non resti nella cenere l'impronta della pentola: che le rondini non t'entrino in casa: non pisciar di contro al sole: non ti specchiare al lume di lucerna: calza prima il piè dritto; e lava prima il manco: non pisciare su' ritagli delle tue unghie e de' capelli, ma sputaci. Costui anche si astenne sempre dalle fave, come gli Ebrei dal porco. Quando si abbatteva in un bel gallo con le penne e l'ali bianche, e' gli poneva amor carnale come a fratello. Se non fosse un certo bolli bolli di risa che mi par di sentire, i' avrei altro da contarvi di lui; pure ve lo dirò, e voi ridete a vostra posta. Sappiate ch'egli insegnava alle bestie, così brade come domestiche. E si racconta dell'orsa di Puglia, la quale era di spaventosa grandezza e crudelissima e facea macello di greggi e di persone, che il nostr'uomo (se s'ha a dire ch'e' fosse uomo) l'ebbe bellamente a sé, le fece due carezze, se la tenne in casa un po' di tempo a pane e frutta; poi, dandole licenza, si fece promettere che d'allora in poi la non farebbe più male ad alcuno. E di fatto l'orsa chiotta chiotta si rinselvò ne' suoi monti, senza toccar mai più nessun animale. O la storia del bue la volete sentire? Passeggiando per la campagna di Taranto, veduto un bue al pascolo che mangiava certe fave ancor verdi, pregò il villano facesse avvertita la sua bestia di pascere altrove. Il villano malizioso gli risponde: I' non so la lingua bovina, io; diglielo tu da te, se sai. L'altro s'avvicina subito, sta un po' a parlottare negli orecchi al bue; e n'ottiene che non solamente per quella volta, ma e allora e poi sempre rinunziasse alle fave. Il qual bue, depositato come sacro nel tempio di Giunone a Taranto, vi rimase a invecchiare dolcemente, ingrassato a pietanze di cucina che gli offeriva la folla degli adoratori. Questo Ipse adunque, professore e spacciatore di tanto portentosa sapienza, domandato una volta da Leonte signor di Fliunte che razza d'uomo fosse, rispose: Io sono un filosofo. E richiesto da capo del significato di quella nuova parola, ch'egli s'era coniato per , prese a dire: «La vita umana è come un mercato, tenuto con apparato splendidissimo di pubblici giuochi e concorso di tutta la Grecia. E' ci pioverà gente d'ogni parte, chi per una chi per altra cagione. Alcuni per metter su rivendita di loro ciarpe, i quali rizzeranno per la piazza trabacche e padiglioni, come lacciuoli e reti tese a' quattrinelli. Altri per fare anche questa volta mostra di sé e delle virtù sue diverse: chi a lanciar il disco, chi a sollevar pesi a braccio fermo, chi a far salti mortali, chi ad atterrare nella lotta, chi a trasvolare nelle corse; ivi il funambolo cammina in bilico, il saltatore si scaglia, il prestigiatore giuoca di mano, il ciurmatore si gonfia, l'indovino sproposita, il cerretano spaccia fiabe, il saltimbanco la a bere, il gladiatore schermisce, gli oratori snocciolano gentilezze, i poeti bugie. Altri infine, più liberalmente educati, verranno a' giuochi per vedere il paese, conoscer la gente, le arti, gl'ingegni, studiar le opere de' migliori maestri. Così è della vita: nella quale gli uomini si trovano avere variamente disposti gli animi; e tale desidera danari e far bella vita, quegli ha cupidigia di signoria e di comando, uno è punzecchiato da qualche ambizioncella, un altro è lusingato da' piaceri del senso. Ma eccellenti sopra tutti e perfetti si devon dire coloro che si stanno contenti alla speculazione del bello; e contemplano il cielo, il sole, i cori delle stelle: il sole, fonte originale di luce; la luna, mutabile e incostante, che l'attinge da lui; le stelle, quali erranti e quali fisse, tratte pur tutte in giro. Stupendo ordine, che tiene la sua bellezza dalla partecipazione di quel primo intelligibile, ch'io pongo essere la natura de' numeri e delle proporzioni; la quale scorrendo e penetrando per l'universo, lega tutte le cose in vincoli arcani d'ordine e di convenienza. Or io dico che ci ha una scienza delle cose, in quella prima loro derivazione, cioè belle, divine, vere, normali, la quale è detta sofia (che vale sapienza); e lo studioso di sofia chiamo filosofo.» Ne' tempi antichissimi soleano chiamarsi sapienti anche i meccanici artefici; onde Omero questo titolo al legnaiuolo. Fu un vecchio Ateniese, che con le spalle si vantaggiava d'un tratto sugli altri, così ci dicono, e forse figliuolo d'Apollo, il quale tolse il nome di sapienza alle arti che o per necessità o per comodo o per ornamento o per sollazzo o per aiuto servono alle occorrenze della vita. E stabilì doversi chiamare discipline filosofiche: prima, l'Aritmetica; la quale diceva non potersi levar di mezzo, senza che ne vada in malora l'umana ragione: e intendeva non scienza di numeri materiale, ma l'origine e la potenza del pari e dell'impari, studiata rispetto alla natura delle cose. Poi la Teogonia, la Zoogonia, e l'Astronomia: quelle, che cercano la generazione degli dei e degli animali; questa, il corso delle stelle, il circuito della luna che determina i mesi e produce i plenilunî, il giro del sole che regola i solstizi del verno e della state, e alterna il giorno alla notte, e l'una all'altra le quattro stagioni; e le cinque stelle erranti viaggiare con norma certa di movimento e di progresso e di quiete, e le fisse rotare tutte in contrario senso col cielo stesso mirabilmente veloci. Poi la Geometria (così detta impropriamente) piana e solida, che trova la somiglianza delle quantità, la natura delle proporzioni; primo fondamento della scienza musicale. Ma di principal necessità la Dialettica, che è l'arte di distinguere il vero dal falso e questo combattere; arte, non artifiziocoloratura falsa di parole, ché allora va chiamata ciarlataneria. Questa esser la via da battere, chi voglia filosofando giungere alla conoscenza di quella natura, che sempre è e di mezzo al corrompersi e al generarsi delle cose rimane; queste discipline, per fatica che costino, doversi imparare; o altrimenti, il filosofo si voti a qualche santo. Anco affermava il nostro vecchio che il filosofo dev'esser nato di sacro matrimonio, intendendo che sia di buona famiglia; perché, secondo il proverbio, non d'ogni legno, diremmo noi, se ne cava un Cristo. E come i rami e i germogli sconci e torti da natura non puoi raddirizzarli mai, per tentare e piegar che tu faccia, che non riprendano subito la loro naturale sconcezza, così chi bassamente è nato ed ebbe educazione volgare, in cose dappoco ed in vili operazioni tien fitto l'animo, né sa inalzarloandar diritto e libero. E se quei d'Elide e di Pisa, dove si celebravano i giuochi olimpici, prescrivevano niuno potesse ignudarsi pe' giuochi, che non avesse dimostrati netti d'ogni macchia i proprî genitori e gli avi; ed era pure gara di corpi non d'intelletti, e premio non altro che una corona d'ulivo; come non s'avrà cura di ciò (diceva il vecchio) quando è gara di virtù? «Il filosofo (seguitava) ha da essere egli stesso indagatore amoroso di verità, e aver molti nel medesimo studio compagni e aiutatori. Perocché è nella filosofia come nella caccia: a mettersi soli sulle tracce d'una fiera, gli è difficile o impossibile acchiapparla; di bella compagnia, la si rinserra agevolmente nel suo stesso covaccio: e il filosofo, come cacciator della verità, trova pur troppo frane e dirupi, e selve involte e oscure, che da sé solo non supererebbe. Deve il filosofo, come hanno i loro stemmi le nobili famiglie, i Seleucii l'àncora, i Pelopidi la spalla d'avorio, gli Enobarbi la barba rossa, aver anch'egli la sua divisa; e questa sia: Amare il vero, odiare il falso. Non che talvolta qualche bugia non possa cadergli in acconcio, come se rimpicciolirà sé e le cose proprie; che è la elegante ironia con cui Socrate combatteva gli enfiati Sofisti, facendo il semplice; per mostrar loro quanto ne sapessero poca, se anche un semplice bastava a confutarli. Non parlo di quelli sfacciati che si fanno ciò che non sono a mille miglia; razza molesta dovunque si trovino, specie poi. in questi studi. Danari non deve desiderare il filosofo, né cercar più di quello che occorra a studiare agiatamente. Non merita la nostra stima chi si lascia abbagliar dall'oro, chi mercanteggia la fede e l'onore: e l'oro prova l'uomo, come il fuoco l'oro. Non spierà ne' fatti altrui, curioseggiando e frugando (come le Streghe che si diceva noi); né cercherà di farsi padrone temuto de' segreti d'una famiglia. Rammenti la favola del savio Esopo. Ciascun nomo ha due bisacce o tasche: una davanti e una di dietro, l'una pendente innanzi al petto e l'altra su le spalle. Vizi di qua e vizi di , ma davanti gli altrui e i proprî di dietro. Ond'è che questi non si vedono, e quelli sì. Oh rivoltasse Domeneddio codeste bisacce, che si vedessero i proprî e non gli altrui!» Tale ci adombrò l'immagine del vero e legittimo filosofo questo vecchio Ateniese, che di tutta la testa e anche di tutto il petto si vantaggiava su la turba. E per lui, ei diceva, vivere è un meditare la morte; e pure più di tutti gli altri uomini vive lieto e felice: ma di cosiffatti se ne trova proprio pochissimi; e' son più rari de' corvi bianchi. - Or che v'ho descritto il Filosofo, o non sarei pazzo da catene se vi dicessi o mi credessi d'esser io quello? io, che le discipline necessarie a filosofo ho sol lievemente sfiorate; e de' costumi e virtù che v'ho detto, mi sento pur troppo averne poco o nulla?

 




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