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Agnolo Ambrogini, detto il Poliziano
Lamia

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Ma pognamo ch'io sia. Me ne vorreste dar carico? la filosofia è ella un'arte di vanità o di tristizia? C'è stato chi l'ha giudicata così, specialmente fra i potenti. L'imperatrice Agrippina svolgeva il figliuol suo Nerone dallo studio della filosofia, dicendo: Che se n'hann'eglino a fare gl'imperatori? Domiziano cacciò da Roma e d'Italia i filosofi, non per altro delitto che questo d'essere filosofi. A Socrate, che può chiamarsi il padre della filosofia, gli Ateniesi dettero la cicuta. La fiorentissima città d'Antiochia si rovesciò con ingiurie e cavillazioni contro l'imperatore Giuliano, sol perch'egli era filosofo e, come i vecchi filosofi, teneva la barba lunga. E quel re barbaro che avea decretato si bruciassero tutti i libri dei filosofi? e lo faceva, se non era Algazele che nel ritraesse, con certa pia sebbene poco ingegnosa finzione. Ma di questi niuna meraviglia. Viziosi e scellerati, corrotti nella lussuria e nelle delizie, come non aver a noia la gravita onesta della filosofia? Meraviglia fa, piuttosto, ch'essa sia stata combattuta spesso da dotti uomini, e per giunta dabbene; e più che meraviglia sdegno, che i combattitori n'abbiano avuto gli applausi e le lodi grandi. Ortensio Romano, eloquentissimo e nobilissimo, perché disse male della filosofia si ebbe da Cicerone un libro intitolato nel suo nome, non piccolo accrescimento di gloria nella posterità. Di Dione da Prusa, che primo acquistò il nome di Boccadoro, nessuna delle molte orazioni parve così eloquente come quella che è contro i filosofi. E Aristofane, autore dell'antica commedia, in nessuna delle sue fece prova di tanta grazia e acutezza quanto nelle Nuvole; lepidissima satira del filosofo Socrate, che vi è descritto misurare i salti d'una pulce. E quella orazione di Aristide contro Platone per quattro maggiorenti Ateniesi, mi pare gli faccia più onore di quant'altre ne scrisse, che sono assai; e sì che la manca di artificî, e dalle forme retoriche si allontana, ma certa segreta e fiorente bellezza e leggiadria, fin ne' vocaboli e nella dicitura, la fa meravigliosamente piacere. Finalmente Timone di Fliunte quanta fama anch'egli non si guadagnò dando la berta a' filosofi, con quella sua mordace scrittura intitolata le Beffe! Ma troppo sarebbe se una cosa s'avesse subito a giudicar cattiva perché alcuni la biasimano: come se il dolce non restasse il migliore di tutti i sapori, perché ad alcuni ancorché sani disgusta. Queste cicalate e chiacchiericci son come l'ombra del corpo nostro: al quale non fa nulla ch'essa cresca o scemi, ché e' si riman pure lo stesso; così il dir della gente, o in bene o in male, non fa l'uomo né migliore né peggiore di quel che sia veramente. Fatto sta che è la filosofia, che educa l'anima alla virtù; e come l'anima ci fa vivere, così la virtù nell'anima fa buona la nostra vita: al modo stesso che con gli occhi vediamo, con gli occhi buoni vediamo bene. Gli odiatori di virtù, i viziosi, debbono di necessità disprezzare la filosofia. E qui m'occorrono alle mente certe auree sentenze del pitagorico Archita, le quali chieggo licenza di tradurvi a lettera, scegliendole dal suo libro della Sapienza. «La sapienza, dic'egli, sta sopra a tutte le umane cose; come ai sensi la vista, alle facoltà animali la mente, ai pianeti il sole: la vista, che si stende lontano ad abbracciare più forme e diverse; la mente, quasi regina, ragionando e imaginando opera, ed all'anima è vista e potenza d'ogni cosa buona; il sole, occhio egli e mente della natura, pel quale tutte cose si vedono, si producono, si nutriscono, s'aumentano, si riscaldano. E sopra tutti gli animali sapientissimo l'uomo, per la virtù che ha di studiare nel creato e trarre d'ognidove scienza e cognizione; poiché in lui il Signore Dio impresse e suggellò, quasi universal tipo, la ragione, nella quale, come i suoni hanno i loro proprî organi, così le specie delle cose tutte avessero luogo distinto, e i nomi e le parole significato.» Sin qui Archita. Io direi di più, che chi non cura la filosofia non cura la propria felicità. Infatti a voler essere felici, bisogna possedere beni assai; ma possederli di guisa che ci sian utili, ciò è poterli usare; e del buon uso sola maestra è la scienza: or la filosofia non è appunto studiare o possedere la scienza? per divenir felici e' ci abbisogna dunque filosofia. Ancora, cureremo le cose nostre, come il corpo e l'avere; e ciò che è noi stessi, lo spirito, che si cura con la filosofia, come con la medicina la persona, lo trascureremo? Nel quale delle tre sue parti, o facoltà che si chiamino, principali: ragione, ira, desiderio; quella sola divina, quasi brute le altre; carezzeremo, alleveremo il desiderio, fiera dalle cento teste; l'ira, leone arrabbiato; e quella che proprio è l'uomo, la ragione, la terremo sfinita, debole, semispenta? lasceremo strapparcela a prova dai due mostri, come l'Ippolito della favola, tagliare a pezzi, stracciare? Sia pure che non si voglia far vita solitaria, ma s'attenda a negozi in città: e in città che cosa troviamo? Arti che fanno ai comodi della vita; le quali ne adoperano altre, e poi da altre sono esse adoperate, da altre governate; e queste ultime più hanno in sé pregio ed eziandio utile. Or quella che sola addirizza il giudizio, che per istrumento ha la stessa ragione, per oggetto l'utile universale, la quale non è altro che la filosofia, non potrà dunque di sua natura tutte adoperarle o governarle? E ci vogliamo vergognare della filosofia? - Ma l'è troppo astrusa a studiarsi, direte. - Anzi, stando ai segni, delle discipline liberali è forse quella di più piana conoscenza; riuscendo meglio e più agevolmente note le cose che precedono che non quelle che seguono, e le più di lor natura compite che non le meno. E poi, come va che la filosofia in breve tempo, senza pure l'allettamento de' guadagni, toccò il suo fiore; e ogni gentile desidera aver agio di coltivarla? Non mostra questo ch'essa è piuttosto un piacere che una fatica? Aggiungete, che a cotesti studî di meditazione l'uomo può darsi ogni volta che gli piaccia, perocché né han bisogno d'esteriori istrumenti, né in luogo alcuno sconvengono: sii dove tu vuoi, la verità è lì sempre. Però se la filosofia non ha grandissima difficoltà ad apprendersi, neanche potrebbe arrivarsi d'un tratto; né si comunica a chi sonnecchia, ma vuol le sue veglie: e noi, dappochi!, neanche una particella di notte invernale veglieremmo per lei, noi che per amore d'un po' di vilissima ruggine passiamo le colonne d'Ercole, navighiamo fino all'Indie! E che nel filosofare sia piacere grandissimo, a meglio intendere, s'imagini un uomo ricco d'ogni ben di Dio, ma ignorante e scemo. Chi vorrebb'esser costui? Nessuno, mi penso; come a nessuno piacerebbe una perpetua ebrietà, o una perpetua fanciullezza, o il sonno perpetuo d'Endimione. Il sonno ha pure i suoi piaceri; ma falsi aombrati immaginarî, non veri effettivi espressi. Così la cagione perché quasi da tutti si tema la morte credo essere che ciascuno ha terrore di ciò che ignora, come di cosa oscura e tenebrosa; e, per l'opposto, piglia diletto di ciò che intende, come di cosa aperta e chiara. Così anche l'affetto reverente ai genitori penso sia gratitudine di quel singolare beneficio dell'averci essi aperti gli occhi al sole, alle stelle, a questa luce universale. Così ci compiacciamo più delle cose che più abbiamo in pratica; e più amiamo coloro coi quali abbiam fatto più lungo soggiorno; e nostre conoscenze chiamiamo comunemente gli amici. Se dunque le cose conosciute piacciono, come non piacerà l'atto stesso del conoscere e sapere? ma la massima conoscenza è nello studio della filosofia; ivi adunque, come a porto unico, conviene riposarsi chi voglia in questa vita fare e desiderare il vero e il buono. Considerate, di grazia, la vita degli uomini? che è ella poi in tutto, se non ombra vana, o, come potentemente dice Pindaro, sogno d'ombra? E l'antico proverbio: L'uomo è una bolla d'acqua. Deh quanto più robusto di noi, un elefante! quanto più veloce una lepretta! Questa superba gloria, che ci attrae furiosamente, oh come è misera cosa! anzi, nebbia e nient'altro: da lontano, ti pare un gran che; avvicinati, è sfumata. La bellezza e nobiltà della persona può far figura ai nostri deboli occhi; ma se, con acutezza di linee, potessimo spingerli a guardare fin dentro ai corpi, oh che tetro e sozzo e deforme spettacolo! oh come avremmo a schifo la più perfetta bellezza! Delle oscene voluttà non occorre ch'io parli, seguite sempre dal pentimento. Or via, mostratemi cosa al mondo stabile e durevole: se alcuna a noi par tale, è per nostra sciocchezza e perché la misuriamo alla vita nostra brevissima. Laonde non era poi del tutto assurda quella opinione d'alcuni antichi filosofi, che l'anime nostre son cacciate nei corpi, come in una prigione, a scontare la pena di gravi delitti; e a me pensando come l'anima sia congiunta e attaccata al corpo, distesa e spiegata per tutte le membra e quasi per i canali dei sensi, torna in mente il supplizio di quei meschini sudditi di Mezenzio, secondo canta Virgilio nostro:

 

Vivi a morti legava, e strettamente

Componea mani a mani e faccia a faccia;

Orrendo strazio! e in miserabil, sozzo

Amplesso lentamente gli uccideva.

 

Nulla adunque è nelle cose umane che valga la fatica d'un pensiero, salvo quella particella d'aura divina, secondo il bel detto d'Orazio, la quale in mezzo al cieco turbinio dà pure un governo sicuro alla vita mortale. Perocché nostro Dio è l'anima, Dio veramente; chiunque fosse che primo osò affermarlo, o Euripide o Ermotimo o Anassagora. - Ma la filosofia, si dirà, non offre nessun guadagno. - E che ho a cercar io di guadagno, quando la cosa è da se stessa guadagno? Dunque alla recita d'una commedia o d'una tragedia, alle lotte dei gladiatori, accorreremo in gran moltitudine di spettatori, senza nessun allettamento di guadagno; e al solenne spettacolo della natura universale ci dorrà assistere gratuitamente? - Ma la filosofia è oziosa, si contenta di contemplazioni. - Sì, ma è essa poi la norma d'ogni azione; come nel corpo umano la vista, che sebbene la non faccia opera alcuna, però, in quanto serve del continuo o a scorgere o a giudicare le cose, è tale aiuto a chi fa, ch'e' debba riconoscer non meno dagli occhi proprî che dalle mani. - Ma il filosofo è di natura ruvido e insocievole: non domandare a lui qual è la strada che mena in Piazza, né dove si raduni la Signoria, o dove il popolo concorra, o dove le liti si decidano; leggi, decreti, editti del suo paese, nulla conosce; le candidature, le adunanze, i banchetti, le merende, non se le sogna neanco; a ricercarlo de' fatti altrui, e le buone o cattive venture, e di quello le taccherelle della moglie, di questo del padre, di quell'altro le sue proprie, è come chiedergli

 

Di quante giacciano libiche arene

Nell'aromatico suol di Cirene.

 

Ma e il suo vicino l'ha egli mai guardato in faccia? sa egli s'è bianco o nero, se uomo o belva? Peggio ancora: non avverte pure quel ch'egli abbia dinanzi ai piedi. Così di Talete da Mileto si racconta, che caduto in un pozzo mentre considerava le stelle, s'ebbe le beffe della fantesca trace: - Che poco senno, o Talete, è a volere studiar il cielo, quando non vedi quel che hai tra' piedi! - Mena quest'uomo in Palagio, o al Potestà, o in Consiglio; digli che parli delle cose occorrenti alla giornata: ve' che s'impaccia, balena, perde il senno e la vista, pare un uccello su' panioni, un pipistrello di contro al sole. Altro che le risa della fantesca trace! egli avrà dicatti di salvarsi col bastone quella sua barba orrevole dai monelli scarabocchiatori d'abbaco. Prova a lanciargli un motto, a veder s'e'risponde. Ché! zitto com'olio. E che ha egli a rispondere, lui che non si cura de' fatti altrui e di fiscaleggiare sul prossimo? Ed è lui stesso, che se fra gli uomini sente chi recitarsi da sé il panegirico, chi lodar le beatitudini di re e principi, uno vantare i mille iugeri delle sue fattorie, un altro ripescare la nobiltà del proprio sangue nei bisavoli: - Oh che gabbia di matti! - esclama, e si caccia a ridere d'un tal suo riso tra l'insolente e lo sciocco. Ecco, direte, ecco questo messer lo filosofo, da te lodato; perché e di che lodato, sappitelo poi tu. - A tutto ciò come potre' io rispondere, quando non c'è cosa detta che non sia la verità stessa? verissimo, che il filosofo non sa straccio né di mercati, né di liti, né di Palagio, né di consorterie, né delle umane vergogne; reputandosi ad alcune di tali cose estraneo, ad altre superiore, e da doverle disprezzare e lasciarne la cura alla volgare turba, ché qualunque dappoco è da tanto. Il gran capitano Temistocle, sul campo di battaglia ch'egli avea coperto di cadaveri nemici, veduto per terra collane e cerchi d'oro, passa oltre, e volgendosi al compagno: - Raccatta, gli dice, tu che non sei Temistocle. - Così il filosofo le cose non degne di sé non tocca; e tanto cordialmente le sprezza, che di spregiarle neanco s'accorge; perocché l'animo suo continuamente va pellegrinando, e come del cigno di Dirce canta Orazio,

 

Per la profondità vasta de' cieli

Potente aura l'inalza;

 

e lassù donde gli si spiega innanzi l'universo e la natura si manifesta,

 

Mentre d'un guardo l'ampio orbe misura,

Sovrasta ad ogni men che nobil cura.

 

Qual differenza per lui tra un re e un guardiano di porci o di pecore o di buoi? peggio anzi esser re, che dee governare creature peggiori; essendo peggior delle bestie, anche delle feroci, un popolo ignorante: cosicché le mura delle città paiono al filosofo non altro che steccati e stalle, fatte per chiudere quelle greggie selvatiche. E che stima farà egli di mille iugeri di terra, se questa tutta intera apparisce a lui un picciol punto? E come non deriderà chi si vanta di gentilissimo sangue per aver cinque o sei avi nobili e ricchi? quando non ci è famiglia e blasone, che non debba aver avuto una schiera infinita di schiavi, di barbari, di miserabili; né re che non sia nato da schiavi, né schiavo che non discenda da re: gli uni e gli altri, oggi così distanti, mescolandosi insieme nelle tenebre secolari. Ma qui torna opportuna la elegante allegoria di Giamblico, filosofo platonico, che i Greci chiamavano a una voce divinissimo. Immaginatevi (egli dice) una grotta spaziosa, molto bene addentro incavata, che riceva luce per la propria bocca dall'alto. Nei recessi della grotta siano uomini a sedere, colaggiù posti dall'infanzia, incatenati e stretti in guisa che non possano né voltarsi verso la bocca della grotta, né altramente muoversi, né altro vedere se non in diritta linea davanti a sé. Sopra loro al di dietro, in lontananza, risplenda un gran fuoco; tra 'l quale ed essi corra una via elevata e come sospesa in alto, e presso a quella sia un muro. Passeggino per la via molti con vasi ed altri oggetti in mano, e figure d'animali o di pietra o di legno o di qualunqu'altra materia; e tutte queste cose ch'e' portano compaiano, mentre passano, su quel muro; e de' portatori, com' è naturale, alcuni tacciano altri parlino insieme. Sia insomma la scena, come quando i giocolieri, di dietro alla tenda, fan vedere i burattini, piccole figurine con loro attucci e cenni da ridere, che s'abbaruffano e si rincorrono facendo il chiasso. Mi domandate dove va a parare questa fina e stravagante imaginazione? Ecco. Pognamo che que' tali uomini incatenati fermamente laggiù siano della stessa natura che noi. Che vedranno essi? Sé medesimi, no certo: e neanche si vedranno l'un l'altro, né pure vedranno quelli oggetti portati attorno; essi che stanno al buio, e senza potersi rivoltare. E' non dovranno dunque veder altro che quelle ombre, le quali il fuoco descritto getta sulla parete di fronte nella spelonca; e quelle giudicheranno e, dato che parlino insieme, chiameranno cose reali; e anche, se le parole di quelli altri che passano saranno nella parete ripercosse e risonate da quel giuoco di voce, cui i greci chiamaron l'Eco, ben crederanno costoro sia proprio l'ombra che parla. Insomma dico ch'essi non avranno un sospetto al mondo che la realtà sia altra cosa se non le ombre. Or bene: sciogliamo le catene e liberiamoli; e proviamoci a guarirli di tanta ignoranza. Che accadrà? Io credo che se a un d'essi tu farai levar le manette e i ferri corti, e che s'alzi in piè e guardi indietro e giri per la grotta e si volga verso la luce, sulle prime tutto turbato e con gli occhi abbarbagliati dai raggi non potrà mirare quelle cose delle quali fin'allora aveva veduta l'immagine. E se gli dirai: Amico, quel ch'hai veduto sin qui era per celia; ecco ora le cose vere; e mostrandogliene, gli domanderai: Che è questa, e quest'altra? non pensi tu ch'ei si rimarrà fra 'l dubbio e l'incertezza, finché si attacchi pure a credere che più vere erano le cose le quali dianzi vedeva che non le presenti? E se lo costringerai ad uscire all'aperta luce, lo vedrai di certo (come dubitarne?) dolergli gli occhi, e rinculare dinanzi ai raggi, e darsi a gambe di gran lena per tornar difilato a' suoi simulacri. E se su su a forza lo tirerai fuora, egli resisterà disperatamente; e venuto sotto il sole, torcerà il niffolo, come Cerbero davanti ad Ercole; né gli reggerà la vista a guardare le cose che gli saranno come buone proposte, se innanzi e a poco a poco non ci fa l'uso. Così si avvezzerà prima alle ombre notturne, poi al riflesso del sole nell'acqua, in seguito ai corpi opachi; finché inalzi al cielo gli occhi, e prima vegga di notte la luna e le stelle, poscia osi volgere di giorno lo sguardo al sole stesso, e venga fra sé pensando esser quello che misura il tempo e regola le stagioni, quello altresì che produsse le cose le quali egli soleva per l'innanzi guatare nel buio della grotta. E allora che animo sarà il suo? che farà? che memoria serberà di quella cieca prigione, delle catene, di quella sapienza veramente da collegio? Certo ringrazierà Dio a man giunte e di gran cuore, per esserne pure campato; e compiangerà la sorte de' compagni, lasciati fra tanti guai. E mettiamo che nella grotta fosse usanza lodare e dar premî ed onori ai più acuti nel vedere quelle immagini, o più pronti a ricordarsi con che ordine, quali prima quali dopo quali insieme, fosser venute in scena, o buoni a indovinarle innanzi vengano; dite, quegli onori quelle lodi que' premî faranno ora gola al nostro amico? invidierà coloro che li abbiano ottenuti? Ma in verità, io stimo vorrebbe piuttosto fuggire di là dalla Sarmazia e del Mar glaciale, che esser re fra costoro. Or facciamo che egli, se si può dire, rimpatrî, tornando a quell'orrido e cieco ricovero. Certamente egli s'allucinerà, passando dal sole alle tenebre; e se faranno a pruova, a chi distingua più acutamente quelle fantasime, costui, come dappoco, sarà vinto e beffato da tutti; e i compagni a gridare: - L'amico è tornato a casa cieco! tristo a chi esce! - Cosicché se tu volessi novamente scioglierne alcuno e menarlo fuori, ciascuno punterebbe mani e piedi, e ti s'avventerebbe, potendo, con l'unghie agli occhi. Spiegherei l'allegoria, se ad altri che a Fiorentini parlassi, ingegnosissimi e prontissimi cervelli: basti l'avvertire che quei legati al buio rappresentano il volgo e gl'ignoranti, quel libero alla luce del dì senza catene è desso il filosofo di che da tempo parliamo. Così fossi io lui! Né l'odiosità e il discredito di quel nome non mi fanno tanta paura, che non volessi essere, se potessi, filosofo.

 




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