8 - LA
BASTERNA DI MESSALINA
Era in legno di
cedro all'Asia tolto,
e in porpora di
Tiro
e in vaghe piume di
colibrì avvolto.
Le gemme, a mille e
mille,
quelle dei glauchi
oceani,
quelle cui veglian,
nelle grotte buie,
gli Incubi, iddii
dalle pupille fuie,
la cospergean di
innumeri scintille.
Rosseggiava il
rubino,
come attraverso al
sole opimo vino;
parea ruscello
immobile il zaffiro,
e lo smeraldo
egizïan splendea
del color che, a
ciel fosco, ha la marea.
Ma il topazio,
l'elettrica
gemma all'oro
rivale,
quella che svia dai
cori
la tristezza
fatale,
l'altre tutte
vincea co' suoi splendori.
E sola era bandita
dalla basterna
d'ogni onor vestita
l'amatista pudica,
dei folli sogni e
dell'oblio nemica.
Non olezzò di
ambrosia
delle Pimplee la
chioma,
sul fonte di
Ippocrene,
come, con mossa or
vorticosa or lene,
quel cocchio, in
mezzo ai propilei di Roma,
e notte e dì
vagante.
Era mirra? era
nardo?... Al suo passaggio,
ai giovinetti dalla
toga bianca
salìa pei nervi un
fremito,
e pensavano ai
bagni ove Eulïade
e Lidia e Pirra
altra non portan tunica
che il crin
disciolto sulle bianche spalle.
Quattro chiomati
Etìopi
la sorreggono, e
par, tanto han negli occhi
splendor
misterïoso,
che, di là dentro,
il sol voluttüoso
li irraggi della
lor terra natìa.
Però, scenda del
Tevere alla valle,
o salga al Campidoglio,
o dai quadrivii del
suburbio sbocchi,
la folla, senator,
consoli, schiavi,
liberti e
sacerdoti,
si fanno immoti.
E fosse anche il
pontefice di Giove,
errante nella sua
sedia di avorio,
umilmente si
inchina - e si prosterna...
È il cocchio
imperatorio - è la basterna
di Messalina!
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