11 - IL TEMPIO ROMANO
Ecco
una landa solitaria e bella
come
la speme di un morente. Il cielo
è
di un vivido azzurro e senza velo;
contadina
che spigoli sul prato,
né
carro appar nel piano interminato;
solo
un tempio romano, ove facella
più
di vestal da secoli non splende,
e
ai sacrifici l'augure non scende,
innalza
torvo su un letto d'ortiche
le
sue colonne antiche.
Le
falangi dei Cimbri incatenati
qui
passár, dalle invitte alme imprecando
ai
ferri e alla fatal legge del brando;
qui
pregár forse gli ultimi tribuni,
dalla
vendetta dei barbari immuni,
tra
l'arse insegne e i figli insanguinati,
i
dolci lari - quando fiori al crine
degli
amanti ponean donne latine,
e
barcollava in mezzo all'orgie doma
la
vetustà di Roma.
Or
sulle basi e i capitelli immani,
e
fra i deserti portici e le ogive,
l'edera
stese le braccia, lascive
come
le spose di Nerone: l'ali
del
tempo e dell'oblio nei penetrali
infranser
l'are dei possenti Mani,
e
troveresti in mezzo ai sassi, a caso
frugando,
forse di un olimpio il naso,
che
greco artista sculse e dei circensi
fiutò
votivi incensi...
Ma
al tempio il danno e il nostro oblio che importa?
Gli
idoli infranti, e fu l'oro rapito:
pur
non svanì la santità del sito;
la
beltà che dan gli anni alle rovine,
come
raggio di un martire sul crine,
siede
grande e severa alla sua porta,
e
par che gridi fuor dagli archi neri,
se
ne destano l'eco i passeggieri:
lunge,
lunge dai ruderi romani
o
progenie di nani!
Nimes, maggio 1858.
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