12 - IL PROFESSORE DI GRECO
Il
lungo e magro professor di greco,
che
quasi odiar mi fece il divo Omero,
fu
stamane a vedermi al mio studietto.
La
tavolozza mia si tinse a nero,
e
io lasciando i pennelli con dispetto
il
guatai torvo e bieco.
Ché
all'entrar suo mi rientrò nel core
tutta
la noia dei passati inciampi,
quando
fanciullo pallido e sparuto
alle
dolci anelavo aure dei campi,
e
avrei pei gioghi del Sempion venduto
e
Troia e il suo cantore.
Ma
poi ch'io vidi l'uom, già in uggia tanto,
incanutito
e sofferente e stanco,
l'antica
bile mi fuggì dal petto,
e
fissai mestamente il suo crin bianco;
egli
abbracciommi coll'usato affetto
e
mi sedette accanto.
Poi
mi narrò de' suoi lunghi malanni
e
delle pene della famigliuola;
sentirsi
affranto e avvelenato ormai
dall'afa
sempre uguale della scuola,
che
fin gli toglie il ricrearsi ai rai
del
sole agli ultimi anni.
Indi
guardando con occhio d'amore
la
stanza piena di festa e di luce,
e
le sparse mie tele e gli abbozzetti,
da
cui la lieta fantasia traluce,
parea,
che desto ai primi ardenti affetti,
chiusi
non morti in core,
volesse
dirmi: - Oh quanti nuovi lidi,
quanta
stesa di cieli e di marine,
tu
vedesti, e pur giovane sei tanto!
Ed
io?... dei grami dì già presso al fine
che
mai conosco di sì vago incanto?
Nulla,
mai nulla io vidi!
Talor
fra l'aure aperte e la verzura
la
mia stanca vecchiezza si riposa,
quand'esco
coi figliuoli alla campagna;
ma
quell'ora di pace, ahi come vola!
Qual
tristezza maggior non m'accompagna
poi
fra le chiuse mura!-
Povero
vecchio! - ed io fui crudo tanto
da
attristargli la già misera vita ?...
Sù,
versi miei, seguitelo per via,
ditegli
voi, che col greco è svanita
ogni
rancura, e che quand'egli uscia
dalla
mia stanza - ho pianto!
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