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OLIMPIO - A GIOVANNI CAMERANA
Un giorno che
piovea dirottamente,
(era il pallido
ottobre), e i valligiani
del mondo si
perdean dentro la mota,
un giovinetto,
amico mio, bizzarro
gobbo, dagli occhi
stranamente neri,
questi versi cantò
sotto l'ombrello:
- O padre eterno,
se hai tempo da perdere
e se non dormi nei
placidi cieli,
tu che ogni giorno
alla turba ti sveli,
padre, una volta,
una sola, a me svèlati!
Deh mi esaudisci e
mi dona, o Signore,
un po' di lusso, di
calma e di amore!
Voglio un giardino
ove i cedri coi salici
fingan le valli
dell'Etna, e del Rosa;
dove il colibrì,
tra i fior di mimosa,
canti in famiglia
col gufo e la rondine;
dove, coperto di
un'ellera eterna,
mi sembri un
chiosco la casa materna.
Voglio una donna
cui tutte somiglino
le cento donne a
vent'anni sognate;
voglio una donna di
tempre infocate,
che sia la santa,
che sia la Proserpina,
e vinca in arte di
teneri ludi
quante hai lassù
schiere d'angioli nudi!
Dammi la calma, la
calma degli angeli
quando han cenato e
che in cerchio fumando,
dentro le piume
dell'ali soffiando
globi di ambrosia
da pipe di zucchero,
dicon fra lor :
«Siamo un capolavoro!».
Deh fa' che tale io
mi creda con loro!
Oh schiudi, schiudi
il celeste deposito
dei puri olezzi,
dei raggi serbati
ai fiori e agli astri
che ancor non son nati!
Sol io non valgo
una viola, una lucciola?
Via! mi esaudisci e
mi dona, o Signore,
un po' di lusso, di
calma e di amore! -
Così cantava
Olimpio, il gobbo strano.
E la pioggia cadea,
colla beata
quiete degli
immortali, in un monotono
metro rimando sulle
fronde e i ciottoli
l'Iliade delle
gocciole.
L'ombrello
di Olimpio segna
sulle bianche nubi
un semicerchio che
sembra la porta
di una lontana
galleria nel cielo,
buia come un
mister. Sono allagate
le vecchie casse
dei poveri morti,
sono allagati i
giovinetti nidi
degli usignuoli; un
passeggier non scorgi,
per quanto è vasta
la pianura.
I carri
dei contadini sotto
i porticati
se ne stan colle
braccia in su rivolte
come turchi preganti;
i focolari
prestano un lume
intermittente e pallido
alle finestre, e il
genia campagnuolo
sembra da quelle
osservar tristemente
la rovina dei
fiori.
E Olimpio canta:
- I miei giorni in
un sogno dileguano;
son già lungi, ben
lungi i più belli!
Come un volo - di
uccelli - che emigrano
e che solo -
precipita in mar.
Li ricorda? sa
forse l'Oceano
se le piume avean
d'oro lucenti,
se eran belli - i
concenti - di lagrime
degli uccelli - che
ha visti annegar?
I miei giorni in un
sogno dileguano!..
Presto un gobbo di
meno avrà il mondo;
e in un buco -
profondo - ma piccolo
qualche bruco - la
terra di più!
O natura, se
nascono i salici
dalle salme dei
gobbi, ah perdio!
così torci - tu il
mio - che mi veggano
rane e sorci -
guardando all'insù...
Mi ameranno: il
tranquillo rigagnolo
spargerò d'ombre
tremule e fresche;
degli amici - alle
tresche - di foglie
cantatrici - un
idillio farò.
Chi sa! forse
l'amore oltre il tumulo
ai mutati viventi
non falla:
qualche errante -
farfalla - può nascere
qualche amante -
che il gobbo sognò! -
Così cantava
Olimpio il gobbo strano:
E intanto i ceruli
monti lontani
scotean la nebbia
dai dorsi immani,
e un rezzo tiepido
giunto - in quel
punto
sapendo niente -
dall'Orïente,
dalle piramidi,
dai templi eccelsi,
scotea fra i gelsi,
modestamente,
l'ultime gocciole
che, lente lente,
cadean sui prati,
simili a lagrime
d'occhi - malati.
Fiocchi - di lana
parean le nuvole,
e una campana
lontana - al dubbio
del viatore
dicea: tre ore
«Veh, un gobbetto!
Oh il bel gobbetto
Dal più folto di un
boschetto
questo grido a un
tratto uscì.
E il gobbetto, il
bel gobbetto,
cessò il canto e
impallidì.
«Oh per Bacco!
dentro il sacco
porti un putto,
porti un pacco,
o una tromba da
suonar?
Oh per Bacco! giù
quel sacco,
lo vogliamo
esaminar».
Ed ecco dal folto
compare un bel volto,
e un altro lo
segue, da un'iride avvolto
di lunghi capelli
che sembrano d'or:
son due giovinette
che usciron dal folto,
soffuse le guance
di vago rossor.
Han fior sulla
vesta, han fior sulla testa,
li han forse
cosparsi per irne a una festa?
Van forse a un
altare per farsi adorar?
Han fior sulla
testa, han fior sulla vesta,
e il povero Olimpio
sta muto a guardar.
«Belle dame - dice
poi -
i tesor del sacco
mio
se volete esaminar,
le padrone siete
voi;
ma lasciate ch'io
v'osservi
che son ossa e che
son nervi
che vi occorre di
slacciar.
Con quegli occhi
celestiali,
con quel labbro, con
quel crine,
con quel seno
ammaliator,
so che molti e
molti mali
si pon fare, e
esperte siete,
ché già punto
entrambe avete
questo povero mio
cor.
Ma però se occulte
piaghe,
se dolorò senza
lamenti
non vi basta di
crear;
né il pensier vi
rende paghe
che ridendo
assassinate,
e che sempre, ove
passate,
resta un'anima a
pregar;
che, di notte, a
voi pensando,
chi vi ha viste
alla mattina
ha l'inferno al
capezzal;
e, alla coltrice
parlando,
può giocarsi il
posto in cielo,
e infelice e bieco
e anelo,
come l'angelo del
mal,
risvegliarsi il
giorno dopo
pien di affanno e
di memorie
qual chi riede da
lontan;
se non bastano allo
scopo
per cui Dio vi ha
poste in terra
queste vittime di
guerra
già cadute o che
cadran;
se il piacer già in
voi ne langue,
e vi punge il
desiderio
di più pratici
martir;
ecco il cuore ed
ecco il sangue
di un gobbetto
innamorato...
Il mio sacco è
preparato,
non vi resta che a
ferir!».
Le giovinette
risero,
e dissero fra lor:
Questo gobbetto è
lepido
«in parola
d'onor!».
E volte a lui: «Sei
piccolo,
però ne sai di
belle;
a raccontar
storielle
dinne, chi
t'insegnò?».
«Nessun, mie donne
amabili:
ho imparato da me;
oh il sacco delle
bubbole
por ve lo posso ai
piè».
«Deh, se ne sai,
raccontane!».
«come vi garberà».
«Vieni in giardin:
la vecchia
addormentata è
già».
Splendea la luna e
al raggio
umido di rugiada,
per la fiorita
strada
la comitiva entrò.
Ombrìe bizzarre
Olimpio
spargea col suo
gobbetto,
e le due donne
stretto
se lo tenean fra
lor.
Al vago lume un
timido
gnomo il poeta par.
. .
«Delle storielle il
titolo
prima di
caminciar?».
E il gobbetto inchinandosi:
«Corbellerie
stupende!
Saran Fiabe e
Leggende
di spiriti e
d'amor!».
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