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Quando entrò nel
palazzo l'Ebreo conquistatore
tutto mutò
sembianza, tutto mutò colore,
e all'amante di
sasso crebber le noie e il danno.
Tra le colonne,
intorno al piedestallo, or stanno
casse di sego,
mucchi di corde e chiodi usati,
arazzi e vecchi
mobili ghermiti o sequestrati,
bottiglie senza
tappo, vecchi stocchi sguarniti,
pelli e corna di
buffalo e ermellini ammuffiti,
libri venduti
all'alba da un notaio balzano,
e la sera mutati in
vetri di Murano;
qui, ammonticchiati
al prezzo di un bacio o di un ducato,
la gonna della
vedova, l'assisa del soldato;
qui un po' di tutto
e un tutto di niente, a sbalzi, a caso
arraffato dall'ugna
della miseria, e al naso
della beffarda
Usura, fior della fame, offerto!
Quanto agli
appartamenti per molti giorni incerto
fu il novello
padrone circa modum tenendi:
eran tappezzerie,
candelabri stupendi,
tele piene del
genio di seppelliti artisti,
dei poveri antenati
ambizïosi acquisti...
Rividero il sereno
venduti al forastiero;
e quel giorno gli
scheletri piansero in cimitero,
gli scheletri
obliati dei divini pittori,
cui certo un dì non
s'erano pagati che i colori,
mentre l'ebreo,
felice dell'oro conquistato,
d'esserne debitore
ai morti avea scordato,
né un pensier, né
una lagrima, né un fiorellin soltanto
avea, passando a
caso, gettato in camposanto.
Fatto il vuoto,
divise l'aule immense e i saloni,
come se li
allestisse per nidi di piccioni,
in camerette
anguste, in stanzuccie pigmee;
lamentandosi molto
che Bacchi e Citeree
e Silfidi ed Amori,
sulle volte dipinti,
non si potesser
vendere perché alla calce avvinti.
Si vendicò
tagliandoli coi muri a centellini,
e dandone una parte
a tutti gli inquilini.
E qui vedi una
Venere che ha la bella sembianza,
le braccia e il
seno eburneo nella vicina stanza;
qui il piè di una
baccante e là sbuca una cetra,
poi del fanciul
terribile un piede e la faretra,
poi Giunone che al
laccio della parete appresa
ha l'ala azzurra e
piangere ti sembra dell'offesa.
Un tal del primo
piano cui toccò in sorte parte
di un'imagine nuda
che non vo' porre in carte,
lagnossi al
proprietario e voleva andar via;
l'ebreo gli
rispondeva: «Questa è un'allegoria,
l'ha pinta il
Tintoretto, è un egregio disegno»
e l'altro a replicargli:
«Fu un pittoraccio indegno!».
Più di una vecchia
cabale astruse avea cavate
numerando le membra
sul capo suo librate,
e quando un
mendicante che stava al quinto piano
vi fu trovato morto
col suo rosario in mano,
«Io bene, io ben
sapevalo - ronzava una donnetta -
quella nicchia
portava la cifra maledetta,
tra braccia e gambe
e piedi e dita bianche e scure,
le ho ben contate
un giorno, son tredici pitture!».
E più il povero
Ebreo non l'avrebbe affittata,
se Steno, il
giovinetto dall'aria sventurata,
dal crin lungo le
spalle cadente in brune anella,
non l'avesse,
bizzarro caso, trovata bella,
quando seppe che
dentro v'era stato il becchino.
Steno vi prese
alloggio quello stesso mattino.
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