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Oltre a questa indole ministeriale, il Concilio Vaticano II ha posto
ulteriormente in luce il carattere diciamo così vicario della Curia, per il fatto
che essa, come già detto, non agisce per proprio diritto né per propria
iniziativa: infatti esercita la potestà ricevuta dal Papa a motivo di quel
rapporto essenziale e originario che ha con lui; e la caratteristica propria di
questa potestà è di collegare sempre il proprio impegno di lavoro con la
volontà di colui, dal quale prende origine.
La sua ragion
d'essere è quella di esprimere e di manifestare la fedele interpretazione e
consonanza, anzi l'identità con quella volontà medesima, per il bene delle Chiese
ed il servizio dei Vescovi. La Curia romana trova in questa caratteristica la
sua forza e la sua efficacia, ma al tempo stesso anche i limiti delle sue
prerogative e un codice di comportamento.
La pienezza di
questa potestà risiede nel capo, cioè nella persona del Vicario di Cristo, il
quale l'attribuisce ai dicasteri di Curia secondo la competenza e l'ambito di
ciascuno. Ma poiché il ministero petrino del Papa, come già detto, per sua
natura fa riferimento al ministero personale dei Vescovi, sia come membri del
collegio suoi fratelli nell'episcopato, anche la diaconia della Curia, della
quale egli si avvale nell'esercizio del suo ministero personale, farà
necessariamente riferimento al ministero personale dei Vescovi, sia come membri
del collegio episcopale, sia come pastori delle Chiese particolari.
Per tale
ragione, non solo è impensabile che la Curia romana ostacoli oppure condizioni,
a mo' di diaframma, i rapporti e contatti personali tra i Vescovi ed il romano
Pontefice, ma, invece, essa stessa è, e dev'essere sempre maggiormente,
ministra di comunione e di partecipazione alle sollecitudini ecclesiali.
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