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Mi trovai nel luogo convenuto
presso il castello senza quasi avvedermi d'esservi andato. Non aveva dormito, e
mi pareva di non essere ben desto. Il dottore era venuto co' miei secondi,
m'aveva cacciato in una carrozza, ed era stato in ciò sì pronto e sì puntuale,
che eravamo giunti nello stesso istante che il mio avversario.
Era una mattina fredda, oscura,
nebbiosa; gli alberi erano carichi di ghiacciuoli che la brezza faceva cadere
dai rami; le campane dei paeselli vicini continuavano a suonare a festa; gruppi
di contadini andavano alla città o ne tornavano coi loro canestri; le campagne
erano coperte di neve e deserte.
Scendemmo nel fossato per una
frana che le pioggie avevano prodotto nel terrapieno. Colà non v'era a temere
di esser visti. Quel castello, cui tante volte aveva dovuto recarmi con Fosca e
che non aveva veduto mai, non era abitato che da pochi coloni; le sue torri
screpolate coperte di ficaie selvagge e di ellere pareano minacciarci di crollare
sopra di noi.
I nostri secondi convennero che
ci fossimo battuti alla sciabola, come arma meno pericolosa. Ciò era per me
indifferente. Non perché non odiassi quell'uomo, ma perché in quell'istante non
aveva coscienza né dell'altrui pericolo, né del mio; quella specie di
esaltazione, di sonnambulismo che aveva provato in me fino dalla sera
precedente era ancora più piena e più profonda. Non vedevo con chiarezza, non
aveva che una percezione imperfettissima delle cose che accadevano intorno a
me. Sentiva il mio sangue fluttuare dal cuore alla testa con impeto spaventevole; provava una sensazione penosa
alle vene delle tempie ed ai polsi, le mie orecchie erano assordate da un
tintinnio incessante; provava in tutto il mio corpo quell'impressione che dà non
un dolore, ma l'aspettazione di un dolore; mi pareva che fra pochi istanti
tutta la mia macchina avrebbe dovuto scomporsi, rovinare; mi sembrava di essere
in attesa di qualche cosa di strano, di terribile, come di essere fulminato.
Ci levammo le tuniche e
rimboccammo le maniche della camicia. Scorreva lì presso un rigagnolo; il
dottore vi bagnò un fazzoletto, lo torse, e mi legò il polso. Ci diedero le
sciabole, ci collocarono di fronte l'uno all'altro, misurarono le distanze. Io
aveva sul mio avversario il vantaggio della statura, egli quello dell'agilità.
Era un uomo piccolo, secco, nervoso; e i suoi occhi inquieti e vivaci che non
cessavano di affissarmi, indicavano in lui un'energia e una risolutezza che io
era ben lungi dall'avere.
Fu dato il segnale. Il colonnello
tentò subito e con agilità impareggiabile un colpo decisivo, un colpo a
bandoliera che io non evitai che in parte ritirandomi. Egli mi squarciò la
camicia dalla spalla destra fino al fianco sinistro, e mi segnò una lunga
scalfittura sul petto. Un orlo di sangue comparve subitamente lungo tutto lo
sparato. Però nel ritirarsi si scoperse, e dal canto mio lo colpii al braccio,
ma la rimboccatura della manica rese il mio colpo inoffensivo.
Ci ordinarono desistere,
esaminarono la mia ferita, ricominciammo.
Scambiammo parecchi colpi senza
alcun frutto. Io era assai più abile del mio avversario, e se avessi nutrito
odio per lui o avessi avuto maggior coscienza del pericolo cui m'esponevo, non
avrei trovato difficoltà ad uscirne con vantaggio. Dopo pochi minuti, il
colonnello era ansante, sfinito. Ci riposammo.
Facemmo un terzo assalto. Io era
più che stanco, annoiato; mi limitava alla difesa, e mi difendeva debolmente.
Il colonnello aveva riacquistata nuova energia, il dispetto lo aveva, per così
dire, ringiovanito, accompagnava ogni colpo con un grido secco e breve come è
costume dei duellanti, e tentava ferirmi al petto di punta. Ripeté due o tre
volte questo tentativo. La sua ostinazione mi scosse istintivamente dalla mia
apatia. V'era nulla di più facile che colpirlo in quel momento con un fendente
di testa, né so come non se ne avvedesse. Colsi l'istante, egli mi si avventò
rovesciando indietro il capo, io fui sollecito a ritrarmi senza parare, e a
riavventarmi subito, prima che avesse avuto tempo di rimettersi in guardia.
Lasciai scendere la sciabola leggermente, egli vide il pericolo, deviò a
destra, e lo colpii alla spalla.
Gettò la sua arma con dispetto,
rampognando i suoi secondi di aver acconsentito alla scelta della sciabola, e
dicendo che il freddo gli irrigidiva le mani, e rendeva impossibile il
servirsene liberamente. La sua ferita era benché profonda, non grave.
Insistette perché ci battessimo
alla pistola. Nessun consiglio poté distoglierlo da questo proposito.
Levammo a sorte cui toccasse
sparare per primo: la fortuna favorì il mio avversario.
Fummo collocati a trenta passi di
distanza. Le pareti parallele del fosso che era angustissimo davano all'occhio
una direzione sì giusta e sì facile, che io mi tenni perduto. Avvicinai la mia
arma al petto per coprirne il cuore, e mi collocai un poco di fianco per offrir
minor bersaglio possibile. Fu dato il segnale, il colonnello sparò, la palla
passò fischiando senza colpirmi.
Egli riprese la sua posizione, io
distesi il braccio, sparai alla mia volta senza mirare; egli vacillò un
istante, lasciò scivolare la pistola di mano, e cadde rovesciato. Io non so
cosa avvenisse di me in quell'istante. Il mio respiro si arrestò, le mie vene
parvero scoppiare, il mio cuore schiantarsi; una tenebra mi passò davanti agli
occhi, i miei muscoli si contrassero con uno spasimo atroce, brancicai un
momento come per afferrarmi a qualche cosa, proruppi in un urlo acuto,
disperato, straziante, quale non aveva inteso mai uscire da petto umano, se non
forse da quello di Fosca, e caddi fra le braccia del dottore che era accorso in
mio aiuto.
Quella infermità terribile per
cui aveva provato tanto orrore mi aveva colpito in quell'istante; la malattia
di Fosca si era trasfusa in me: io aveva conseguito in quel momento la triste
eredità del mio fallo e del mio amore.
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