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Sarebbe inutile riandare sugli
anni che hanno preceduto gli avvenimenti che sto per raccontare. Io non voglio
afferrare che un punto della mia vita, non voglio metterne in luce che un
istante. Chi oserebbe affacciarsi allo spettacolo intero della sua esistenza,
spiare nelle sue pieghe tenebrose, e ritesserne tutta la storia?
La mia gioventù trascorse piena,
ricca, feconda. La fortuna, a dir vero, non m’era stata assai prodiga de’ suoi
favori; ma che cale alla gioventù della fortuna? Quella è l’età della forza,
del coraggio, della baldanza; è allora che si raccolgono a piene mani i frutti
che maturano nel giardino della vita, che si accosta alle labbra la coppa
inebriante della felicità; a quell’età si fruisce di un bene che non si conosce
e non si esperimenta mai più nell’avvenire, mai più — la mite e affettuosa
indulgenza degli uomini.
Non ho mai potuto indovinare se
la mia natura fosse piuttosto incompleta che esuberante; ma in qualunque modo,
egli era ben certo che io mi innalzava sul livello delle nature comuni. La
ripugnanza che ho sentito, e che sento ancora per tutto ciò che è
convenzionale, per tutto ciò che è metodico, non proveniva già dalla mia
educazione, ma da una disposizione speciale del mio carattere. Non mi importava
di essere da più o da meno degli altri uomini, mi bastava di esserne diverso.
In tutta la mia vita ho operato
come ho pensato — convulsivamente. Dicono che i leoni si trovano in uno stato
di febbre continuo. Ignoro quale medico abbia potuto accertarsi di questo
fenomeno, come avrebbe fatto al capezzale di un infermo; ma sia ciò vero o non
vero, sia la mia natura debole o forte, non vi è dubbio che io ho provato
sempre una specie di agitazione febbrile e convulsa simile a quella.
Io mi sono divorato la vita. Io
non potrei misurare la mia età colla stregua ordinaria del tempo.
Aveva ventotto anni allorché
successero gli avvenimenti che sto per raccontare. La rivoluzione mi aveva
trascinato già da tempo nelle sue file, quasi mio malgrado. Deviato da’ miei
studi, combattuto nelle mie inclinazioni, mi era indotto a rimanere
nell’esercito ove aveva ottenuto grado di ufficiale. Io vi militava da cinque
anni, allorché colpito da una grave malattia di cuore dovetti chiedere una
lunga licenza, e ritirarmi nel mio villaggio natale. Gravi rovesci di fortuna
mi avevano impedito di camparmi la vita in altro modo che coll’essere inscritto
nei ruoli di un reggimento, e far pompa del mio costume di capitano. E dico ciò
perché allora la guerra era cessata, e mi vergognava spesso di quell’inazione
ricompensata sì largamente. Io riscuoteva un lauto assegnamento sulle casse
dello Stato.
Non parlerò adesso dei dolori che
avevano provocata quella mia malattia. Essi appartengono ad un’altra epoca
della mia vita; furono il frutto di una passione che, ove non mi fosse
inspirata dal più nobile dei sentimenti, avrebbe coperto di onta il mio
passato. Nondimeno quei dolori furono enormi, e se non ebbero il potere di
uccidermi, è perché tal potere è spesso negato al dolore.
In capo ad un anno aveva
richiesta l’attività, non già che la mia salute fosse migliorata, ma perché mi
sarebbe stato impossibile rimanere più a lungo nel mio paese natale. Quella
vita di solitudine e di meditazione avrebbe finito coll’uccidermi. Chi ha
vissuto un tempo nelle grandi città non può più adattarsi alla vita dei
villaggi; non può impicciolire le sue vedute, le sue idee, le sue abitudini
fino alle proporzioni meschine, e spesso ridicole, che dà alle proprie la gente
delle campagne. Io ho considerato sempre i piccoli villaggi come centri
d’ignoranza, di barbarie, spesso anche di corruzione. Sono essi, a mio credere,
che arrestano il corso della civiltà, che si pongono tra le ruote del suo
carro. Se tutti i punti abitati della terra fossero Londra, Pietroburgo,
Parigi, Roma, Berlino, il quesito la cui soluzione affatica da secoli l’umanità
sarebbe risolto all’istante.
Né la monotonia di quella vita
era il meno doloroso de’ miei tormenti. Io conosceva tutte le vie di quel
paese, tutte le case, tutti gli abitanti — viuzze strette e fangose,
catapecchie anguste e miserabili, contadini rozzi e cocciuti. Mi dava pena il
vederli, più pena il sentirli. La stessa natura non aveva che attrattive assai
deboli. Vicino ai villaggi anche la natura sembra patire, è rozza e pigmea,
soffre d’impotenza e di rachitismo; si direbbe che le manchi qualche cosa, come
la forza e il profumo. I boschi di Boulogne, di Volksgarten, di Thiergarten non
si trovano che vicino a Parigi, a Vienna, a Berlino.
L’uomo risente, come le piante,
l’influsso dell’atmosfera in cui vive. Io mi vedeva isterilire, immiserire,
deperire. Fosse effetto della malattia, fosse influenza di quel soggiorno
triste ed uggioso, io mi era interamente e miseramente trasformato. Una
malinconia profonda, una disperanza piena di gelo e di scetticismo si erano
impadronite di me. Non sentiva più alcun rammarico del passato, né alcuna
trepidanza dell’avvenire. Questo avvenire lo aveva in certa guisa prevenuto. Me
ne era formata l’imagine la più triste, la più nera, la più desolante; aveva
forzato la mia anima ad accettarlo senza lagnarsene, e così m’era posto in pace
con l’unico oggetto che avesse potuto ancora atterrirmi, col fantasma
sconosciuto di questo avvenire.
Ho pensato spesso, durante questi
anni, a quei giorni pieni di desolazione e di sconforto, a quel lungo inverno
di cinque mesi trascorso tra le pareti di poche stanze, senza veder altro volto
d’uomo che il mio. Mi sono ricordato ancora di tutto ciò che aveva allora
colpito in qualche modo i miei sensi: le larghe finestre a vetrate coperte di
ragnateli, il pigolio dei passeri che beccavano nei canali delle gronde, lo
stillare delle nevi che si scioglievano, il rumore degli zoccoli ferrati dei
contadini sul selciato fangoso della via — uniche sensazioni, uniche voci che
mi avvertivano come vi erano esseri che vivevano d’intorno a me, come io stesso
viveva in mezzo ad esseri vivi e sensibili. Ho conservato memoria di quei
giorni in un diario scritto sotto l’impressione di quei dolori segreti di
cuore, che non giova ora qui riportare.
Allorché mi allontanai da quel
luogo, e sostato nella prima città che incontrai nel mio viaggio, confrontai il
mio volto con quello di altri uomini, mi chiesi con spavento se io era ancora
lo stesso di un tempo, se era diventato dissimile da loro, se sarei
sopravvissuto a quel giorno.
Aveva imparato a disperare troppo
precocemente.
Allora non prevedeva l’aurora
luminosa che doveva sorgere ancora sulla mia gioventù, e che doveva tramontare
sì presto!
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