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All’indomani mi recai a visitare
il colonnello, capo del servizio a cui era stato destinato.
Egli era uomo di circa
sessant’anni, esile e piccolo di statura; il suo carattere aveva in sé nulla di
forte e di maschio, ma l’abitudine del comando e della disciplina avevano dato
ai suoi modi un’impronta francamente energica e militare. Come in gran parte
delle nature deboli, quell’assenza di forza era compensata da molta dolcezza
d’animo, e da una specie d’ingenuità che rasentava quasi l’ignoranza, tanto era
straordinaria in un uomo di quell’età e di quella professione. Aveva indole
allegra e vivacissima. Lo si poteva dire un cattivo soldato, ma era un abile
matematico, un eccellente disegnatore, espertissimo di tutte le scienze
attinenti alla guerra; e, cosa straordinaria in ogni classe d’uomini,
doppiamente straordinaria fra militari, era uomo eccezionalmente onesto.
Un’avventura successami due anni
prima, per la quale io aveva arrischiata la mia vita con un’estrema temerità, e
l’aveva avuta salva in modo singolarissimo — avventura troppo impressa nelle
mie memorie, perché mi giovi l’affermarla ora su queste pagine — mi aveva
creato nell’esercito una specie di strana reputazione; la mia malattia, i miei
casi avevano contribuito a circondare il mio nome di un prestigio in parte
lusinghiero, e a risvegliare un interesse affettuoso per la mia persona.
Fu forse a tale prevenzione che
io fui debitore dell’accoglienza amichevole che ricevetti dal colonnello.
— Noi ci troviamo qui — diss’egli
dopo avermi parlato a lungo di molte cose — come fossimo in un villaggio di
Barberia; siamo poco meno che tra i Pellirosse. Dubito se avrete trovato un
alloggio dove acconciarvi onestamente e comodamente.
— Sono tuttora all’albergo — io
dissi.
— All’albergo! E come vi avete
mangiato?
— Non so…; parmi pessimamente.
Il colonnello sembrò un poco
meravigliato di quel mio dubbio; guardò il suo orologio, e riprese:
— Non mancano che pochi minuti
alle cinque. Vi invito a pranzare con me, in mia casa, accettate?
— Accetto — risposi io
inchinandomi.
Dopo qualche istante uscimmo.
— Noi facciamo una piccola mensa
in famiglia — continuò egli lungo la via. — Propriamente parlando, non posso
dire di aver famiglia, ma ho meco una mia parente che ne tiene le veci, benché
la poveretta sia di salute così cagionevole da darmi più pensieri che non me ne
tolga. È una mensa abbastanza modesta. Qui non vi sono che pessimi elementi di
cucina, la verdura sopratutto è demoralizzata; ma almeno vi si mangia, vedrete…
Già, alla mia età, il bisogno di un pranzo discreto è inesorabile. Avrete della
compagnia; vi vengono due maggiori, un colonnello, un dottore di reggimento,
due medici borghesi; siamo in otto in tutto. I medici poi — egli riprese —
affluiscono a casa mia come in un ospitale. Mia cugina è la malattia
personificata, l’isterismo fatto donna, un miracolo vivente del sistema
nervoso, come si espresse ultimamente un dottore che l’ha visitata. Ve la farò
conoscere. Avrei potuto mandarla poco lungi di qui, presso una famiglia che ne
avrebbe avuto gran cura, giacché ella è rimasta sola al mondo, ma non so
separarmene; a sessant’anni si vive di abitudini; e poi quest’aria morta le
giova, e anche questo paese di Pellirosse non le dispiace.
Giungemmo in breve alla sua
abitazione.
Il pranzo fu allegro, eccellente,
condito di molta maldicenza, di frizzi, e di quelle frasi equivoche e poco
castigate che s’ascoltano per solito tra militari.
Vicino a me era un coperto
intatto e ne feci l’osservazione.
— È il posto della signora Fosca
— mi disse uno dei commensali.
— Di mia cugina; — aggiunse il
colonnello — essa tiene il letto sette giorni della settimana, e anche oggi non
sta meglio del solito. Mi dispiace che non l’abbiate veduta, è della voracità
di una mosca.
Allorché ci fummo alzati da
tavola, egli mi si piantò dinanzi colle gambe sparate, e colle mani incrociate
dietro la schiena, e mi chiese:
— E così, come avete pranzato?
— Ottimamente.
— Davvero?
— Diamine, a meraviglia!
— E che ve ne pare di questo
locale?
— Magnifico.
— Di questa nostra società?
— Ne sono lusingato — diss’io.
— Francamente, senza complimenti,
da amici — riprese egli drizzandosi e riunendo le sue gambe colla vivacità
dello scatto di una molla; e levandosi la mano destra di dietro la schiena, e
porgendomela, aggiunse:
— Se volete far parte della
nostra mensa, se volete aggregarvi a noi… non avete a temere per la vostra
borsa, la base fondamentale della nostra associazione è l’economia. Già… È un
sentimento di carità che mi consiglia a farvi questa proposta… E anche di
simpatia — continuò porgendomi l’altra mano. — Pensateci bene, noi vi parliamo
per esperienza… in questo paese di Pellirosse…
Era un’offerta che non poteva in
alcun modo declinare.
Accettai benché a malincuore.
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