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V’era però un mezzo ben certo di
rendere impossibile ogni altro legame, e di distruggere quello che avevamo già
contratto — evitare di trovarmi solo con lei. Fuggirla era follia; l’avessi pur
potuto, non l’avrei dovuto; tale estremo era inopportuno, né ella il meritava,
né suo cugino ci sarebbe passato sopra senza volerne sapere le cause.
Ella avrebbe potuto leggere
nell’anima mia il pentimento che io sentiva di quel primo abbandono, e la
risoluzione decisa di dimenticarlo; il mio contegno doveva essere sufficiente a
ciò, né il suo orgoglio le avrebbe permesso di chiedermene una spiegazione.
Riuscii per alcuni giorni ad
evitare di trovarci soli — cosa che non ebbe a costarmi poca fatica, perché
ella, dal canto suo, poneva in opera ogni strattagemma possibile per ottenere
uno scopo contrario. Aveva ella indovinato le mie intenzioni? Non lo lasciava
apparire. Forse ad arte, giacché in tal caso il suo amor proprio le avrebbe
dovuto imporre la stessa severità di contegno a mio riguardo.
Non era più stata malata, né
aveva lasciato passare una sola occasione per vedermi. All’indomani di quella
passeggiata, ciascun commensale aveva trovato un fiore sul suo coperto; inutile
dire che il mio era il più bello. Tutte le cure, tutte le preferenze possibili
erano per me. Ella sapeva porre tant’arte in dissimulare questa predilezione,
che nessuno se n’era avveduto, ma era tal cosa che a me non poteva sfuggire. Ne
era commosso, ma me ne doleva amaramente.
Da principio mi era sembrato
tollerasse quella mia apatia con animo indifferente, in seguito mi avvidi che
incominciava ad immalinconire, e ne soffriva.
Una sera in cui eravamo seduti
dappresso — fosse caso, fosse disegno — accostò tanto il suo braccio al mio da
toccarlo e da premerlo; io mi ritrassi un poco: bastò quest’atto a cagionarle
una crisi nervosa delle più violente.
Che poteva io fare? Sentiva pietà
di lei, vedeva il suo cuore e ne soffriva; ma l’egoismo del mio amore, la mia
felicità, la natura stessa facevano tacere in me quel sentimento. Io ero
divenuto più fermo che mai nel disegno di respingere quell’affezione.
Una sera il colonnello mi aveva
detto:
— Domani usciremo in carrozza
assieme, vi farò vedere una pariglia che non avete ancora veduto, andremo al
castello.
— Volontieri.
All’indomani rimasi penosamente
sorpreso nel veder Fosca apparecchiata ad accompagnarci. Eravamo soltanto noi
tre, e aspettavamo che ci si annunciasse che la vettura era pronta. Indugiando
i domestici in ciò, il colonnello salì sulle furie, e discese egli stesso nel
cortile. Rimanemmo soli, in piedi, l’uno di fronte all’altra. Nessuno di noi
osava rompere quel silenzio angoscioso.
Ad un tratto, Fosca afferrò con
atto disperato le mie mani che io teneva riunite sul petto, e vi nascose il
volto esclamando con voce supplichevole:
— Oh Giorgio, oh Giorgio!
Finsi di essere sorpreso, di non
comprendere.
— Che avete? — le chiesi io con
freddezza — vi sentite forse male? Che è avvenuto?
— Ah! — gridò ella respingendo le
mie mani con violenza, e guardandomi con espressione di affettuoso rancore. E
prorompendo in lacrime fuggì nella sua camera.
Suo cugino fu assai sorpreso di
questo incidente.
— Che hai? Che accadde?
— Nulla, un’emicrania improvvisa,
insoffribile: sto male, non uscirò più, sono disperata. Vorrei morire, morire!
— Morire! Sei pazza! — esclamò il
colonnello.
E avvicinandosi a me che ero
rimasto immoto sull’uscio, mi disse:
— Abbiate pazienza, mio caro, voi
vedete che mia cugina sta male; non ho cuore a lasciarla sola; andremo un altro
giorno a visitare quel castello.
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