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Iginio Ugo Tarchetti
Fosca

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«Come sono belle le campagne che corrono di a Milano! Le ho attraversate come in un sogno. Quando si viaggiava in carrozza, a giornate, si vedeva un lembo di terra alla volta, ora la nostra vista può abbracciarne in poche ore estensioni smisurate. L’uomo si affanna sempre più a conquistare la terra.

Le pianure della Lombardia sono serene come il suo cielo, liete e fiorenti come le sue donne; quel cielo è fatto apposta per quelle campagne, non sta bene che , con un altro suolo non armonizzerebbe. Non so perché mi piacciano adesso le pianure, a me cui non sono piaciute mai, a me nato e cresciuto tra le montagne. Ma chi non amerebbe i luoghi dove è stato felice e dove lo può essere ancora? La Lombardia è all’Italia ciò che sono le praterie all’America, — gli Elisi, i Campi felici.

Ho passato sei ore in una specie di dolce rapimento, colla testa fuori dello sportello, coll’anima perduta nella natura. Un viaggio in ferrovia è una corsa attraverso la natura: si provano le stesse vertigini del volare. Dopo che la scienza ha creato questo mezzo di locomozione si può quasi dire che l’uomo ha delle ali.

Che bella fantasmagoria di alberi, di fiumi, di case, di paesaggi! Come l’orizzonte pareva girare intorno a me, quasi mi fossi trovato in circolo magico! Ho veduto su nell’alto, nell’alto, una lunga fila di gru che erano appena visibili. Dove andavano? Chi dirigeva la loro corsa? Chi lo sa dire! — Dove va a finire il corso della mia vita?

Ho viaggiato con alcune fanciulle, e con due vecchi che non mi levavano mai gli occhi d’addosso. Essi comprendevano senza dubbio che vi era in me qualche cosa di straordinario, l’aspettazione di una grande felicità. Mi sentiva voglia di voltarmi, e di dir loro: «Signori non sapete che io sono molto felice?» Ma ho avuto pietà della loro vecchiezza!

Eccomi di nuovo in questo piccolo santuario. Esso è ancora tutto ripieno di lei, vi è ancora tutto il suo profumo. Se mi avessero condotto qui ad occhi chiusi, avrei gridato subito: «Clara, Clara!» perché avrei sentito la sua presenza.

Ho trovato un suo capello, e ho baciato e ribaciato il guanciale che riteneva ancora l’impronta della sua testa. Quanti ragnateli! Ho visto un millepiedi sulla parete. Il micio del vicino ha veduto l’uscio aperto ed è entrato ad accarezzarmi le gambe colla coda, l’ho riveduto come un vecchio amico. Quell’ellera che veste la parete esternamente si è abbarbicata alla persiana, e ha cacciato dentro, per le gretole, alcuni rami coperti di fogliuzze quasi bianche, perché non avevano luce. È una pianta sempre viva, e ne ho tratto un presagio lusinghiero.

Sono le quattro dopo mezzanotte: passeggio, piango e sorrido. Ripeto spesso, protendendo le braccia: «Oh Clara, vieni, vieni!»

Non posso coricarmi: ancora otto ore, — a domani: ancora otto ore!

Ho aperto le finestre; il cielo è chiaro e sereno. Che scintillio di stelle! che silenzio! Oh mio Dio, come siete grande

Tale è un brano delle memorie che io scrissi in quella mia prima gita a Milano, e che ricopio ora dal mio giornale.

 




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