SERRANO
Quantunque,
Opico mio, sii vecchio e carico
di senno e
di pensier che 'n te si covano,
deh piangi
or meco, e prendi il mio ramarico
Nel mondo
oggi gli amici non si trovano,
la fede è
morta e regnano le 'nvidie,
e i mal
costumi ognor più si rinovano.
Regnan le
voglie prave e le perfidie
per la
robba mal nata che gli stimula,
tal che 'l
figliuolo al padre par che insidie.
Tal ride
del mio ben, che 'l riso simula;
tal piange
del mio mal, che poi mi lacera
dietro le
spalle con acuta limula.
OPICO
L'invidia,
figliuol mio, se stessa macera,
e si
dilegua come agnel per fascino,
ché non
gli giova ombra di pino o d'acera.
SERRANO
I'
'l pur dirò: così gli Dii mi lascino
veder
vendetta de chi tanto affondami
prima che
i metitor le biade affascino!
E per
l'ira sfogar c'al core abondami,
così 'l
veggia cader d'un olmo, e frangasi,
tal ch'io
di gioia e di pietà confondami!
Tu sai la
via che per le piogge affangasi;
ivi
s'ascose, quando a casa andàvamo,
quel che
tal viva, che lui stesso piangasi!
Nessun vi
riguardò, perché cantàvamo;
ma 'nanzi
cena venne un pastor sùbito
al nostro
albergo, quando al foco stàvamo,
e disse a
me: - Serran, vedi ch'io dubito
che tue
capre sian tutte -; ond'io per correre
ne caddi
sì, c'ancor mi dole il cubito.
Deh, se
qui fusse alcuno, a cui ricorrere
per
giustizia potesse! Or che giustizia?
Sol Dio
sel veda, che ne può soccorrere!
Due capre
e duo capretti per malizia
quel ladro
traditor dal gregge tolsemi;
sì
signoreggia al mondo l'avarizia!
Io gliel
direi; ma chi mel disse, volsemi
legar per
giuramento, ond'esser mutolo
conviemmi;
e pensa tu, se questo dolsemi!
Del furto
si vantò, poi ch'ebbe avutolo;
ché
sputando tre volte fu invisibile
agli occhi
nostri; ond'io saggio riputolo.
Ché se 'l
vedea, di certo era impossibile
uscir vivo
da' cani irati e calidi
ove non
val che l'uom richiami o sibile.
Erbe e
pietre mostrose e sughi palidi,
ossa di
morti e di sepolcri polvere,
magichi
versi assai possenti e validi
portava
indosso, che 'l facean risolvere
in vento,
in acqua, in picciol tubo o félice;
tanto si
può per arte il mondo involvere!
OPICO
Questo è
Protèo, che di cipresso in élice,
e di
serpente in tigre transformavasi,
e
feasi or bove or capra or fiume or selice.
SERRANO
Or
vedi, Opico mio, se 'l mondo aggravasi
di male in
peggio; e deiti pur compiangere,
pensando
al tempo buon che ognor depravasi.
OPICO
Quand'io
appena incominciava a tangere
da terra i
primi rami, et addestravami
con
l'asinel portando il grano a frangere,
il vecchio
padre mio, che tanto amavami,
sovente
all'ombra degli opachi suberi
con amiche
parole a sé chiamavami;
e come
fassi a quei che sono impuberi,
il gregge
m'insegnava di conducere,
e di
tonsar le lane e munger gli uberi.
Tal volta
nel parlar soleva inducere
i tempi
antichi, quando i buoi parlavano,
ché 'l
ciel più grazie allor solea producere.
Allora i
sommi Dii non si sdegnavano
menar le
pecorelle in selva a pascere;
e, come or
noi facemo, essi cantavano.
Non si
potea l'un uom vèr l'altro irascere;
i campi
eran commoni e senza termini,
e Copia i
frutti suoi sempre fea nascere.
Non era
ferro, il qual par c'oggi termini
l'umana
vita; e non eran zizanie,
ond'avvien
c'ogni guerra e mal si germini.
Non si
vedean queste rabbiose insanie;
le genti
litigar non si sentivano,
per che
convien che 'l mondo or si dilanie.
I vecchi,
quando al fin più non uscivano
per
boschi, o si prendean la morte intrepidi,
o con erbe
incantate ingiovenivano.
Non foschi
o freddi, ma lucenti e tepidi
eran gli
giorni; e non s'udivan ulule,
ma vaghi
ucelli dilettosi e lepidi.
La terra
che dal fondo par che pulule
atri
aconiti e piante aspre e mortifere,
ond'oggi
avvien che ciascun pianga et ulule,
era allor piena
d'erbe salutifere,
e di
balsamo e 'ncenso lacrimevole,
di mirre
preziose et odorifere.
Ciascun
mangiava all'ombra dilettevole
or latte e
ghiande, et or ginebri e morole.
Oh dolce
tempo, oh vita sollaccevole!
Pensando a
l'opre lor, non solo onorole
con le
parole; ancor con la memoria,
chinato a
terra, come sante adorole.
Ov'è 'l
valore, ov'è l'antica gloria?
u' son or
quelle genti? Oimè, son cenere,
de le qual
grida ogni famosa istoria.
I lieti
amanti e le fanciulle tenere
givan di
prato in prato ramentandosi
il foco e
l'arco del figliuol di Venere.
Non era
gelosia, ma sollacciandosi
movean i
dolci balli a suon di cetera,
e 'n guisa
di colombi ognor basciandosi.
Oh pura
fede, oh dolce usanza vetera!
Or conosco
ben io che 'l mondo instabile
tanto
peggiora più, quanto più invetera;
tal che
ogni volta, o dolce amico affabile,
ch'io vi
ripenso, sento il cor dividere
di piaga
avelenata et incurabile.
SERRANO
Deh, per
dio, non mel dir, deh non mi uccidere;
ché s'io
mostrasse quel che ho dentro l'anima,
farei con
le sue selve i monti stridere.
Tacer
vorrei; ma il gran dolor me inanima
ch'io tel
pur dica: or sai tu quel Lacinio?
Oimè, c'a
nominarlo il cor si esanima!
Quel che
la notte viglia, e 'l gallicinio
gli è
primo sonno, e tutti Cacco il chiamano,
però che
vive sol di latrocinio.
OPICO
Oh
oh, quel Cacco! oh quanti Cacchi bramano
per questo
bosco! ancor che i saggi dicano
che per un
falso mille buon s'infamano.
SERRANO
Quanti
ne l'altrui sangue si nutricano!
I' 'l so,
che 'l pruovo, e col mio danno intendolo,
tal che i
miei cani indarno s'affaticano.
OPICO
Et io, per
quel che veggio, ancor comprendolo,
che son
pur vecchio, et ho corvati gli omeri
in comprar
senno, e pur ancor non vendolo.
Oh quanti
intorno a queste selve nomeri
pastori,
in vista buon, che tutti furano
rastri,
zappe, sampogne, aratri e vomeri!
D'oltraggio
o di vergogna oggi non curano
questi
compagni del rapace gracculo;
in sì
malvagia vita i cuori indurano,
pur
c'abbian le man piene all'altrui sacculo.
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