Non si sentivano più per
li boschi le cicale cantare, ma solamente in vece di quelle i notturni grilli
succedendo si facevano udire per le fosche campagne; e già ogni ucello si era
per le sovravegnenti tenebre raccolto nel suo albergo, fòra che i vespertelli,
i quali allora destati uscivano da le usate caverne, rallegrandosi di volare
per la amica oscurità de la notte; quando ad un tempo il cantare di Eugenio
ebbe il suo fine, e i nostri greggi discesi da le alte montagne si ragunarono
al luogo ove la sampogna sonava. Per che con le stelle in cielo tutti inseme
partendone da la via ove cantato si era, e menando Clonico con esso noi, ne
riducemmo in un valloncello assai vicino; ove allora che estate era, le vacche
de' paesani bifolci le più de le notti albergavano, ma al tempo de le guazzose
piogge tutte le acque che da' vicini monti discendono, vi si sogliono ragunare.
Il quale d'ogn'intorno circondato naturalmente di querciole, cerretti, suberi,
lentischi, saligastri, e di altre maniere di selvatichi arboscelli, era sì da
ogni parte richiuso, che da nessuno altro luogo che dal proprio varco vi si
potea passare; tal che per le folte ombre de' fronzuti rami, non che allora che
notte era, ma appena quando il sole fusse stato più alto, se ne sarebbe potuto
vedere il cielo. Ove alquanto discosto da le vacche, in un lato de la picciola
valle le nostre pecore e le capre restringemmo come sapemmo divisare il meglio.
E perché gli usati focili per caso portati non aveamo, Ergasto, il quale era
più che gli altri esperto, ebbe subitamente ricorso a quello che la commodità
gli offeriva; e preso un legno di edera et un di alloro, e quelli inseme per
bono spazio fregando, cacciò del foco; dal quale poi che ebbe per diversi
luoghi accese di molte fiaccole, chi si diede a mungere, chi a racconciare la
guasta sampogna, chi a saldare la non stagna fiasca, e chi a fare un mistiero e
chi un altro, insino che la desiata cena si apparecchiasse. La quale poi che
con assai diletto di tutti fu compita, ciascuno, perché molta parte de la notte
passata era, si andò a dormire. 2 Ma venuto il chiaro giorno, e i raggi del
sole apparendo ne le sommità di alti monti, non essendo ancora le lucide gotte
de la fresca brina riseccate ne le tenere erbe, cacciammo dal chiuso vallone li
nostri greggi e gli armenti a pascere ne le verdi campagne. E drizzatine per un
fuor di strada al camino del monte Menalo, che non guari lontano ne stava, con
proponimento di visitare il riverendo tempio di Pan, presentissimo Idio del
selvatico paese, il misero Clonico si volse accomiatare da noi. Il quale
dimandato qual fusse la cagione che sì presto a partirsi il constringesse,
rispose che per fornire quello che la precedente sera gli era stato da noi
impedito, andar voleva; cioè per trovare a' suoi mali rimedio con opra di una
famosa vecchia, sagacissima maestra di magichi artificii. A la quale, secondo
che egli per fama avea molte volte udito dire, Diana in sogno dimostrò tutte le
erbe de la magica Circe e di Medea; e con la forza di quelle soleva ne le più oscure
notti andare per l'aria volando coverta di bianche piume, in forma di notturna
strega; e con suoi incantamenti inviluppare il cielo di oscuri nuvoli, et a sua
posta ritornarlo ne la pristina chiarezza; e fermando i fiumi, rivoltare le
correnti acque ai fonti loro. Dotta sovra ogni altra di attraere dal cielo le
offuscate stelle tutte stillanti di vivo sangue, e di imporre con sue parole
legge al corso de la incantata luna, e di convocare di mezzo giorno nel mondo
la notte e li notturni Idii da la infernale
confusione; e con lungo mormorio rompendo la dura terra, richiamare le anime
degli antichi avoli da li deserti sepolcri; senza che, togliendo il veleno de
le inamorate cavalle, il sangue de la vipera, il cerebro dei rabbiosi orsi e i
peli de la estrema coda del lupo, con altre radici di erbe e sughi
potentissimi, sapeva fare molte altre cose maravigliosissime et incredibili a
racontare. 3 A cui il nostro Opico disse: 4 - Ben credo, figliuol mio, che gli
Dii de' quali tu sei divoto, ti abbiano oggi qui guidato per farti a' tuoi
affanni trovar rimedio, e tale rimedio, ch'io spero che, se a mie parole
presterai fede, ne sarai lieto mentre vivrai. Et a cui ne potresti gir tu, che
più conforto porgere ti potesse, che al nostro Enareto? Il quale sopra gli altri
pastori dottissimo, abandonati i suoi armenti, dimora nei sacrificii di Pan
nostro Idio; a cui la maggior parte de le cose e divine et umane è manifesta,
la terra, il cielo, il mare, lo infatigabile sole, la crescente luna, tutte le
stelle di che il cielo si adorna, Pliadi, Iadi, e 'l veleno del fiero Orione,
l'Orsa maggiore e minore; e così per conseguente i tempi de l'arare, del
metere, di piantare le viti e gli ulivi, di inestare gli alberi, vestendoli di
adottive frondi; similmente di governare le mellifere api, e ristorarle nel
mondo, se estinte fusseno, col putrefatto sangue degli affogati vitelli. 5
Oltra di ciò, quel che più maraviglioso è a dire et a credersi, dormendo egli
in mezzo de le sue vacche ne la oscura notte, duo dragoni gli leccarono le
orecchie; onde egli subitamente per paura destatosi, intese presso all'alba
chiaramente tutti i lenguaggi degli ucelli. E fra gli altri udette un
luscignuolo, che cantando o più tosto piangendo sovra i rami d'un folto
corbezzolo, si lamentava del suo amore, dimandando a le circonstanti selve
aita. A cui un passero all'incontro rispondea, in Leucadia essere una alta
ripa, che chi da quella nel mare saltasse, sarebbe senza lesione fuor di pena.
Al quale soggiunse una lodola, dicendo in una terra di Grecia, de la quale io
ora non so il nome, essere il fonte di Cupidine, del quale chiunque beve,
depone subitamente ogni suo amore. A cui il dolce uscignuolo suavemente
piangendo e lamentandosi rispondeva ne le acque non essere virtù alcuna. In
questo veniva una nera merla, un frisone et un lucarino; e riprendendolo de la
sua sciocchezza, che nei sacri fonti non credeva celesti potenzie fusseno
infuse, cominciarono a racontarli le virtù di tutti i fiumi, fonti e stagni del
mondo; dei quali lui appieno tutti i nomi, e le nature, e i paesi dove nascono
e dove correno mi seppe dire, che non ve ne lasciò un solo, sì bene gli teneva
ne la memoria riposti. 6 Significommi ancora per nome alcuni ucelli, del sangue
dei quali mescolato e confuso inseme, si genera un serpe mirabilissimo, la cui
natura è tale, che qualunque uomo di mangiarlo si arrisca, non è sì strano
parlare di ucelli, che egli appieno non lo intenda. Similmente mi disse non so
che animale, del sangue del quale chi bevesse un poco, e trovassesi in sul fare
del giorno sovra alcun monte, ove molte erbe fusseno, potrebbe pianamente
intendere quelle parlare e manifestare le sue nature, quando tutte piene di
rogiada aprendosi ai primi raggi del sorgente sole ringraziano il cielo de le
infuse grazie che in sé possedono; le quali veramente son tante e tali, che
beati i pastori che quelle sapessono. E se la memoria non mi inganna, mi disse
ancora, che in un paese molto strano e lontano di qui, ove nascon le genti
tutte nere come matura oliva, e còrrevi
sì basso il sole, che si potrebbe di leggiero, se non cocesse, con la mano
toccare, si trova una erba, che in qualunque fiume o lago gittata fusse, il
farebbe subitamente seccare, e quante chiusure toccasse, tutte senza resistenza
aperire; et altra, la quale chi seco portasse, in qualunque parte del mondo
pervenisse, abondarebbe di tutte le cose, né sentirebbe fame, sete, né penuria
alcuna. Né celò egli a me, né io ancora celarò a voi, la strana potenzia de la
spinosa eringe, notissima erba nei nostri liti; la radice de la quale
ripresenta a le volte similitudine del sesso virile o femineo, benché di raro
si trova; ma se per sòrte ad alcuno quella del suo sesso pervenisse ne le mani,
sarebbe senza dubbio in amore fortunatissimo. Appresso a questa soggiunse la
religiosa verbena, gratissimo sacrificio agli antichi altari; del sugo de la
quale qualunque si ungesse, impetrarebbe da ciascuno quanto di dimandare gli
aggradasse, pur che al tempo di coglierla fusse accorto. Ma che vo io
affatigandomi in dirvi queste cose? Già il luogo ove egli dimora ne è vicino; e
saràvi concesso udirlo da lui appieno racontare. - 7 - Deh non - disse Clonico
-, io e tutti costoro desiamo più tosto così caminando, per alleggerirne la
fatica, udirlo da te; acciò che poi, quando ne fia licito vedere questo tuo
santo pastore, più in reverenza lo abbiamo, e quasi a terreno Idio gli rendiamo
i debiti onori ne le nostre selve. - 8 Allora il vecchio Opico, tornando al
lasciato ordine, disse, sé avere ancora udito dal medesmo Enareto alcuni
incanti da resistere a le marine tempestati, ai tuoni, a le nevi, a le piogge,
le grandini et a li furiosi impeti de li discordevoli vènti. Oltra di ciò disse
averli veduto tranghiottire un caldo core e palpitante di una cieca talpa,
ponendosi sovra la lingua uno occhio di indiana testudine ne la quintadecima
luna, e tutte le future cose indovinare. Appresso seguitò averli ancora veduta
una pietra di cristallina specie, trovata nel picciolo ventre d'un bianco
gallo, la quale chi seco ne le forti palestre portasse, sarebbe indubitatamente
contra ogni avversario vincitore. Poi racontò averneli veduta un'altra simile
ad umana lingua, ma maggiore, la quale non come l'altre nasce in terra, ma ne
la mancante luna cade dal cielo, et è non poco utile a li venerei lenocinii;
altra contra al freddo; altra contra le perverse effascinazioni di invidiosi
occhi. Né tacque quella la quale inseme legata con una certa erba e con
alquante altre parole, chiunque indosso la portasse, potrebbe a sua posta
andare invisibile per ogni parte, e fare quanto gli piacesse, senza paura di
essere impedito da alcuno. E questo detto, seguitò d'un dente tolto di bocca a
la destra parte di un certo animale chiamato, se io mai non mi ricordo, iena;
il quale dente è di tanto vigore, che qualunque cacciatore sel legasse al
braccio, non tirarebbe mai colpo in vano. E non partendosi da questo animale,
disse che chi sotto al piede ne portasse la lingua, non sarebbe mai abbaiato
da' cani; chi i peli del muso con la pelle de le oscene parti nel sinestro
braccio legata portasse, a qualunque pastorella gli occhi volgesse, si farebbe
sùbito a mal grado di lei seguitare. E lasciando questo, dimostrò che chi sovra
la sinestra mammella di alcuna donna ponesse un core di notturno gufo, li
farebbe tutti i secreti in sogno parlando manifestare. 9 Così di una cosa in
un'altra saltando, prima appiè de l'alto monte giungemmo, che di averne dopo le
spalle lasciato il piano ne fussemo avveduti. Ove poi che arrivati fummo,
cessando Opico dal suo ragionare, sì come la Fortuna volse, trovammo il santo vecchio che appiè di uno albero si
riposava. Il quale come da presso ne vide, subitamente levatosi per salutarne,
all'incontro ne venne; degno veramente di molta riverenza ne la rugosa fronte,
con la barba e i capelli lunghi e bianchissimi più che la lana de le tarentine
pecore; e ne l'una de le mani avea di genebro un bastone bellissimo quanto
alcuno mai ne vedesse a pastore, con la punta ritorta un poco, da la quale
usciva un lupo che ne portava uno agnello, fatto di tanto artificio, che gli
avresti i cani irritati appresso. Il quale ad Opico prima, dopo a tutti noi
fatte onorevoli accoglienze, ne invitò all'ombra a sedere. Ove aperto un
sacchetto che egli di pelle di cavriuolo portava maculosa e sparsa di bianco,
ne trasse con altre cose una fiasca delicatissima di tamarisco, e volle che in
onore del commune Idio bevessemo tutti. E dopo breve disnare, ad Opico
voltatosi, il dimandò di quello che a fare così di schiera andassemo. Il quale,
prendendo lo inamorato Clonico per mano, così rispose: 10 - La tua virtù, sovra
le altre singularissima, e la estrema necessità di questo misero pastore ne
constrinse a venire in queste selve, Enareto mio; il quale oltra al dovuto
ordine amando, e non sapendo a se medesmo soprastare, si consuma sì forte come
al foco la molle cera. Per la qual cosa non cerchiamo noi a tal bisogno i
responsi del tuo e nostro Idio, i quali egli più che altro oracolo verissimi
rende ne la pura notte a' pastori in questi monti; ma solamente dimandamo la
tua aita, che in un punto ad amore togliendolo, a le desiderose selve et a
tutti noi il ritorni; col quale confessaremo, tutte le giocondità perdute
esserne per te inseme restituite. Et acciò che chi egli è occolto non ti sia,
mille pecore di bianca lana pasce per queste montagne, né di state né di verno
mai li manca novo latte. Del suo cantare non dico altro, però che quando da
amore liberato lo avrai, il potrai a tua posta udire; e fìati, son certo,
gratissimo. - 11 Il vecchio sacerdote, parlando Opico, riguardava il barbuto pastore,
e mosso a pietà de la sua pallidezza, si apparecchiava di rispondere; quando a
le orecchie da le prossimane selve un dolcissimo suono con suave voce ne
pervenne; et a quella rivolti da traverso, vedemmo in una picciola acquetta
appiè d'un salce sedere un solo capraio, che sonando dilettava la sua mandra. E
veduto, subitamente a trovar lo andammo. Ma colui, il quale Elenco avea nome,
come ne vide verso il limpido fiumicello appressare, subitamente nascondendo la
sua lira, quasi per isdegno turbato si tacque. Per la qual cosa il nostro
Ofelia offeso da tanta selvatichezza, sì come colui che piacevolissimo era e
grazioso a' preghi de' pastori, si argumentò con ingiuriose parole doverlo
provocare a cantare. E così con un riso schernevole beffandolo, con questi
versi il constrinse a rispondere:
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