SELVAGGIO
Non son,
Fronimo mio, del tutto mutole,
com'uom
crede, le selve; anzi risonano,
tal che
quasi all'antiche egual riputole.
FRONIMO
Selvaggio,
oggi i pastor più non ragionano
de l'alme
Muse, e più non pregian naccari,
perché,
per ben cantar, non si coronano.
E sì del
fango ognun s'asconde i zaccari,
che tal
più pute che ebuli et abrotano
e par che
odore più che ambrosia e baccari.
Ond'io
temo gli Dii non si riscotano
dal sonno,
e con vendetta ai boni insegnino
sì come i
falli de' malvagi notano.
E s'una
volta avvien che si disdegnino,
non fia
mai poi balen né tempo pluvio,
che di
tornar al ben pur non si ingegnino.
SELVAGGIO
Amico,
io fui tra Baie e 'l gran Vesuvio
nel lieto
piano, ove col mar congiungesi
il bel
Sebeto, accolto in picciol fluvio.
Amor, che
mai dal cor mio non disgiungesi,
mi fe'
cercare un tempo strane fiumora,
ove
l'alma, pensando, ancor compungesi.
E s'io
passai per pruni, urtiche e dumora,
le gambe
il sanno; e se timor mi pusero
crudi
orsi, dure genti, aspre costumora!
Al fin le
dubbie sòrti mi rispusero:
- Cerca
l'alta cittade ove i Calcidici
sopra 'l
vecchio sepolcro si confusero. -
Questo non
intens'io; ma quei fatidici
pastor mel
fer poi chiaro e mel mostrarono,
tal ch'io
gli vidi nel mio ben veridici.
Indi
incantar la luna m'insegnarono,
e ciò che
in arte maga al tempo nobile
Alfesibeo
e Meri si vantarono.
Né nasce
erbetta sì silvestra ignobile,
che 'n
quelle dotte selve non conoscasi;
e quale
stella è fissa, e quale è mobile.
Quivi la
sera, poi che 'l ciel rinfoscasi,
certa
l'arte febea con la palladia,
che non
c'altri, ma Fauno a udir rimboscasi.
Ma a guisa
d'un bel sol fra tutti radia
Caracciol,
che 'n sonar sampogne o cetere
non
troverebbe il pari in tutta Arcadia.
Costui non
imparò putare o metere,
ma curar
greggi da la infetta scabbia
e passion
sanar maligne e vetere.
Il qual un
dì, per isfogar la rabbia,
così prese
a cantar sotto un bel frassino,
io
fiscelle tessendo, egli una gabbia:
- Proveda
il ciel che qui vèr noi non passino
malvage
lingue; e le benigne fatora
fra questi
armenti respirar mi lassino.
Itene,
vaccarelle, in quelle pratora,
acciò che
quando i boschi e i monti imbrunano,
ciascuna a
casa ne ritorne satora.
Quanti
greggi et armenti, oimè, digiunano,
per non
trovar pastura, e de le pampane
si van
nudrendo, che per terra adunano!
Lasso,
c'appena di mill'una càmpane;
e ciascun
vive in tanto estrema inopia,
che 'l cor
per doglia sospirando avampane.
Ringrazie
dunque il ciel qualunque ha copia
d'alcun
suo bene in questa vil miseria,
che
ciascun caccia da la mandra propia.
I bifolci
e i pastor lascian Esperia,
le selve
usate e le fontane amabili;
ché 'l
duro tempo glie ne dà materia.
Erran per
alpe incolte inabitabili,
per non
veder oppresso il lor peculio
da genti
strane, inique, inesorabili.
Le qua'
per povertà d'ogni altro edulio,
non già
per aurea età, ghiande pascevano
per le lor
grotte da l'agosto al giulio.
Viven di
preda qui, come solevano
fra quei
primi pastor nei boschi etrurii.
Deh c'or
non mi sovien qual nome avevano!
So ben che
l'un da più felici augurii
fu vinto e
morto - or mi ricorda, Remo -
in su
l'edificar de' lor tugurii.
Lasso, che
'n un momento io sudo e tremo
e
veramente temo d'altro male;
ché si de'
aver del sale in questo stato,
perché 'l
comanda il Fato e la Fortuna.
Non vedete
la luna ineclissata?
La fera
stella armata di Orione?
Mutata è
la stagione e 'l tempo è duro,
e già
s'attuffa Arcturo in mezzo l'onde;
e 'l sol,
c'a noi s'asconde, ha i raggi spenti,
e van per
l'aria i vènti mormorando,
né so pur
come o quando torne estate.
E le nubi
spezzate fan gran suoni;
tanti
baleni e tuoni han l'aria involta,
ch'io temo
un'altra volta il mondo pera.
O dolce
primavera, o fior novelli,
o aure, o
arboscelli, o fresche erbette,
o piagge
benedette, o colli, o monti,
o valli, o
fiumi, o fonti, o verdi rive,
palme,
lauri et olive, edere e mirti;
o gloriosi
spirti degli boschi;
o Eco, o
antri foschi, o chiare linfe,
o
faretrate Ninfe, o agresti Pani,
o Satiri e
Silvani, o Fauni e Driadi,
Naiadi et
Amadriadi, o semidee,
Oreadi e
Napee, or sète sole;
secche son
le viole in ogni piaggia:
ogni fiera
selvaggia, ogni ucelletto
che vi
sgombrava il petto, or vi vien meno.
E 'l
misero Sileno vecchiarello
non trova
l'asinello ov'ei cavalca.
Dafni,
Mopso e Menalca, oimè, son morti.
Priapo è
fuor degli orti senza falce,
né genebro
né salce è che 'l ricopra.
Vertunno
non s'adopra in transformarse,
Pomona ha
rotte e sparse le sue piante,
né vòl che
le man sante puten legni.
E tu,
Pale, ti sdegni per l'oltraggio,
ché di
april né di maggio hai sacrificio.
Ma s'un
commette il vicio, e tu nol reggi,
che colpa
n'hanno i greggi de' vicini?
Che sotto
gli alti pini e i dritti abeti
si stavan
mansueti a prender festa
per la
verde foresta a suon d'avena;
quando,
per nostra pena, il cieco errore
entrò nel
fiero core al neghittoso.
E già Pan
furioso con la sanna
spezzò
l'amata canna; ond'or piangendo,
se stesso
riprendendo, Amor losinga,
ché de la
sua Siringa si ricorda.
La saette,
la corda, l'arco e 'l dardo,
c'ogni
animal fea tardo, omai Diana
dispregia,
e la fontana ove il protervo
Atteon
divenne cervo; e per campagne
lassa le
sue compagne senza guida;
cotanto si
disfida omai del mondo,
che vede
ognor al fondo gir le stelle.
Marsia
senza pelle ha guasto il bosso,
per cui la
carne e l'osso or porta ignudo;
Minerva il
fiero scudo irata vibra;
Apollo in
Tauro o in Libra non alberga,
ma con
l'usata verga al fiume Anfriso
si sta
dolente, assiso in una pietra,
e tien la
sua faretra sotto ai piedi.
Ahi,
Giove, e tu tel vedi? E non ha lira
da
pianger, ma sospira, e brama il giorno
che 'l
mondo intorno intorno si disfaccia
e prenda
un'altra faccia più leggiadra.
Bacco con
la sua squadra senza Tirsi
vede
incontro venirsi il fiero Marte
armato, e
'n ogni parte farsi strada
con la
cruenta spada. Ahi vita trista!
Non è chi
gli resista. Ahi fato acerbo!
ahi ciel
crudo e superbo! Ecco che 'l mare
si
comincia a turbare, e 'ntorno ai liti
stan tutti
sbigottiti i Dii dell'acque,
perché a
Nettuno piacque esilio darli
e col
tridente urtarli in su la guancia.
La donna e
la bilancia è gita al cielo.
Gran cose
in picciol velo oggi restringo.
Io ne
l'aria dipingo, e tal si stende
che forse
non intende il mio dir fosco.
Dormasi
fuor del bosco. Or quando mai
ne pensàr
tanti guai bestemmie antiche?
Gli ucelli
e le formiche si ricolgono
de' nostri
campi il desiato tritico;
così gli
Dii la libertà ne tolgono.
Tal che
assai meglio nel paese scitico
viven color sotto Boote et Elice,
benché con
cibi alpestri e vin sorbitico.
Già mi
rimembra che da cima un'élice
la
sinestra cornice, oimè, predisselo;
ché 'l
petto mi si fe' quasi una selice.
Lasso, che
la temenza al mio cor fisselo,
pensando
al mal che avvenne; e non è dubbio
che la
Sibilla ne le foglie scrisselo.
Un'orsa,
un tigre han fatto il fier connubbio.
Deh,
perché non troncate, o Parche rigide,
mia tela
breve al dispietato subbio?
Pastor, la
noce che con l'ombre frigide
nòce a le
biade, or ch'è ben tempo, trunchesi,
pria che
per anni il sangue si rinfrigide.
Non
aspettate che la terra ingiunchesi
di male
piante, e non tardate a svellere,
fin che
ogni ferro poi per forza adunchesi.
Tagliate
tosto le radici all'ellere;
ché se col
tempo e col poder s'aggravano,
non
lasseranno i pini in alto eccellere. -
Così
cantava, e i boschi rintonavano
con note,
quai non so s'un tempo in Menalo,
in Parnaso
o in Eurota s'ascoltavano.
E se non
fusse che 'l suo gregge affrenalo
e tienlo a
forza ne l'ingrata patria,
che a morte
desiar spesso rimenalo,
verrebbe a
noi, lassando l'idolatria
e gli
ombrati costumi al guasto secolo,
fuor già
d'ogni natia carità patria.
Et è sol
di vertù sì chiaro specolo,
che adorna
il mondo col suo dritto vivere;
degno
assai più ch'io col mio dir non recolo.
Beata
terra che 'l produsse a scrivere,
e i
boschi, ai quai sì spesso è dato intendere
rime, a
chi 'l ciel non pòte il fin prescrivere!
Ma l'empie
stelle ne vorrei riprendere,
né curo io
già, se col parlar mio crucciole;
sì ratto
fer dal ciel la notte scendere,
che
sperando udir più, vidi le lucciole.
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