Poi
che 'l soave stile e 'l dolce canto
sperar non
lice più per questo bosco,
ricominciate,
o Muse, il vostro pianto.
Piangi,
colle sacrato, opaco e fosco,
e voi,
cave spelunche e grotte oscure,
ululando
venite a pianger nosco.
Piangete,
faggi e querce alpestre e dure,
e
piangendo narrate a questi sassi
le nostre
lacrimose aspre venture.
Lacrimate
voi, fiumi ignudi e cassi
d'ogni
dolcezza; e voi, fontane e rivi,
fermate il
corso e ritenete i passi.
E tu, che
fra le selve occolta vivi,
Eco mesta,
rispondi a le parole,
e quant'io
parlo per li tronchi scrivi.
Piangete,
valli abandonate e sole;
e tu,
terra, depingi nel tuo manto
i gigli
oscuri e nere le viole.
La dotta
Egeria e la tebana Manto
con sùbito
furor Morte n'ha tolta.
Ricominciate,
Muse, il vostro pianto.
E se tu,
riva, udisti alcuna volta
umani
affetti, or prego che accompagni
la dolente
sampogna, a pianger volta.
O erbe, o
fior, che un tempo eccelsi e magni
re foste
al mondo, et or per aspra sòrte
giacete
per li fiumi e per li stagni,
venite
tutti meco a pregar Morte,
che, se
esser può, finisca le mie doglie,
e gli
rincresca il mio gridar sì forte.
Piangi,
Iacinto, le tue belle spoglie,
e
radoppiando le querele antiche,
descrivi i
miei dolori in le tue foglie.
E voi,
liti beati e piagge apriche,
ricordate
a Narcisso il suo dolore,
se giamai
foste di miei preghi amiche.
Non
verdeggi per campi erba né fiore,
né si
scerna più in rosa o in amaranto
quel bel
vivo leggiadro almo colore.
Lasso, chi
può sperar più gloria o vanto?
Morta è la
fé, morto è 'l giudicio fido.
Ricominciate,
Muse, il vostro pianto.
E mentre
sospirando indarno io grido.
voi,
ucelletti inamorati e gai,
uscite,
prego, da l'amato nido.
O
Filomena, che gli antichi guai
rinovi
ogni anno, e con soavi accenti
da selve e
da spelunche udir ti fai;
e se tu,
Progne, è ver c'or ti lamenti
né con la
forma ti fur tolti i sensi,
ma del tuo
fallo ancor ti lagni e penti;
lasciate,
prego, i vostri gridi intensi,
e fin che
io nel mio dir diventi roco,
nessuna
del suo mal ragione o pensi.
Ahi, ahi,
seccan le spine; e poi che un poco
son state
a ricoprar l'antica forza,
ciascuna
torna e nasce al proprio loco.
Ma noi,
poi che una volta il ciel ne sforza,
vento né
sol, né pioggia o primavera
basta a
tornarne in la terrena scorza.
E 'l sol
fuggendo ancor da mane a sera,
ne mena i
giorni e 'l viver nostro inseme
e lui
ritorna pur come prima era.
Felice
Orfeo, che inanzi l'ore estreme,
per
ricoprar colei che pianse tanto,
securo
andò dove più andar si teme!
Vinse
Megera, vinse Radamanto;
a pietà
mosse il re del crudo regno.
Ricominciate,
Muse, il vostro pianto.
Or perché,
lasso, al suon del curvo legno
temprar
non lice a me sì meste note,
ch'impetri
grazia del mio caro pegno?
E se le
rime mie non son sì note
come
quelle d'Orfeo, pur la pietade
dovrebbe
farle in ciel dolci e devote.
Ma se
schernendo nostra umanitade
lei
schifasse il venir, sarei ben lieto
di trovar
all'uscir chiuse le strade.
O desir
vano, o mio stato inquieto!
E so pur
che con erba o con incanto
mutar non
posso l'immortal decreto.
Ben può
quel nitido uscio d'elefanto
mandarmi
in sogno il volto e la favella.
Ricominciate,
Muse, il vostro pianto.
Ma
ristorar non può né darmi quella
che cieco
mi lasciò senza il suo lume,
né tòrre
al ciel sì peregrina stella.
Ma tu, ben
nato aventuroso fiume,
convoca le
tue Ninfe al sacro fondo,
e rinova
il tuo antico almo costume.
Tu la
bella Sirena in tutto il mondo
facesti
nota con sì altera tomba:
quel fu 'l
primo dolor, quest'è 'l secondo.
Fa che
costei ritrove un'altra tromba
che di lei
cante, acciò che s'oda sempre
il nome
che da se stesso rimbomba.
E se per
pioggia mai non si distempre
il tuo bel
corso, aita in qualche parte
il rozzo
stil, sì che pietade il tempre.
Non che
sia degno da notarsi in carte,
ma che sul
reste qui tra questi faggi,
così colmo
d'amor, privo d'ogn'arte;
acciò che
in questi tronchi aspri e selvaggi
leggan gli
altri pastor che qui verranno
i bei
costumi e gli atti onesti e saggi;
e poi
crescendo ognor più di anno in anno,
memoria
sia di lei fra selve e monti,
mentre
erbe in terra e stelle in ciel saranno.
Fiere,
ucelli, spelunche, alberi e fonti,
uomini e
Dei quel nome eccelso e santo
esalteran
con versi alteri e conti.
E perché
al fine alzar conviemmi alquanto,
lassando il
pastoral ruvido stile,
ricominciate,
Muse, il vostro pianto.
Non fa per
me più suono oscuro e vile,
ma chiaro
e bello, che dal ciel l'intenda
quella
altera ben nata alma gentile.
Ella coi
raggi suoi fin qui si stenda,
ella aita
mi porga, e mentre io parlo,
spesso a
vedermi per pietà discenda.
E se 'l
suo stato è tal, che a dimostrarlo
la lingua
manche, a se stessa mi scuse,
e
m'insegne la via d'in carte ornarlo.
Ma tempo
ancor verrà che l'alme Muse
saranno in
pregio; e queste nebbie et ombre
dagli
occhi de' mortai fien tutte escluse.
Allor pur
converrà c'ognuno sgombre
da sé
questi pensier terreni e loschi,
e di salde
speranze il cor s'ingombre.
Ove so che
parranno incolti e foschi
i versi
miei, ma spero che lodati
saran pur
da' pastori in questi boschi.
E molti
che oggi qui non son pregiati,
vedranno
allor di fior vermigli e gialli
descritti
i nomi lor per mezzo i prati.
E le
fontane e i fiumi per le valli
mormorando
diran quel c'ora io canto
con
rilucenti e liquidi cristalli.
E gli
alberi c'or qui consacro e pianto,
risponderanno
al vento sibilando.
Ponete
fine, o Muse, al vostro pianto.
Fortunati
i pastor che, desiando
di venir
in tal grado, han poste l'ale!
benché
nostro non sia sapere il quando.
Ma tu, più
c'altra, bella et immortale
anima, che
dal ciel forse m'ascolti
e mi
dimostri al tuo bel coro eguale,
impetra a
questi lauri ombrosi e folti
grazia,
che con lor sempre verdi fronde
possan qui
ricoprirne ambo sepolti.
Et al
soave suon di lucide onde
il cantar
degli ucelli ancor si aggiunga,
acciò che
il luogo d'ogni grazia abonde.
Ove, se 'l
viver mio pur si prolunga
tanto,
che, com'io bramo, ornar ti possa,
e da tal
voglia il ciel non mi disgiunga,
spero che
sovra te non avrà possa
quel duro,
eterno, ineccitabil sonno
d'averti
chiusa in così poca fossa;
se tanto i
versi miei prometter ponno.
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