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Iacobus Sannazarius Arcadia IntraText CT - Lettura del testo |
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Prosa dodicesima
La nova armonia, i soavi accenti, le pietose parole, et in ultimo la bella et animosa promessa di Ergasto tenevano già, tacendo lui, ammirati e suspesi gli animi degli ascoltanti; quando tra le sommità de' monti il sole bassando i rubicondi raggi verso lo occidente, ne fe' conoscere l'ora esser tarda, e da dovere avvicinarne verso le lassate mandre. Per la qual cosa Opico, nostro capo, in piè levatosi e verso Ergasto con piacevole volto giratosi, gli disse: 2 - Assai per oggi onorata hai la tua Massilia; ingegnaraiti per lo avvenire, quel che nel fine del tuo cantare con affettuosa voluntà gli prometti, con ferma e studiosa perseveranza adempirli. - 3 E così detto, basciando la sepoltura, et invitando noi a fare il simile, si puse in via. Appresso al quale l'un dopo l'altro prendendo congedo, si indrizzò ciascuno verso la sua capanna, beata riputando Massilia sovra ogni altra, per avere di sé a le selve lasciato un sì bel pegno. 4 Ma venuta la oscura notte, pietosa de le mondane fatiche, a dar riposo agli animali, le quiete selve tacevano, non si sentivano più voci di cani né di fiere né di ucelli; le foglie sovra gli alberi non si moveano; non spirava vento alcuno; solamente nel cielo in quel silenzio si potea vedere alcuna stella o scintillare o cadere. Quando io, non so se per le cose vedute il giorno, o che che se ne fusse cagione, dopo molti pensieri, sovrapreso da grave sonno, varie passioni e dolori sentiva ne l'animo. Però che mi pareva, scacciato da' boschi e da' pastori, trovarmi in una solitudine da me mai più non veduta, tra deserte sepolture, senza vedere uomo che io conoscessi; onde io volendo per paura gridare, la voce mi veniva meno, né per molto che io mi sforzasse di fuggire, possea estendere i passi, ma debole e vinto mi rimaneva in mezzo di quelle. Poi pareva che stando ad ascoltare una Sirena, la quale sovra uno scoglio amaramente piangeva, una onda grande del mare mi attuffasse, e mi porgesse tanta fatica nel respirare, che di poco mancava che io non mi morisse. Ultimamente un albero bellissimo di arangio, e da me molto coltivato, mi parea trovare tronco da le radici, con le frondi, i fiori e i frutti sparsi per terra. E dimandando io chi ciò fatto avesse, da alcune Ninfe che quivi piangevano mi era risposto, le inique Parche con le violente secure averlo tagliato. De la qual cosa dolendomi io forte, e dicendo sovra lo amato troncone: «Ove dunque mi riposerò io? sotto qual ombra omai canterò i miei versi?», mi era da l'un de' canti mostrato un nero funebre cipresso, senza altra risposta avere a le mie parole. 5 In questo tanta noia et angoscia mi soprabondava, che non possendo il sonno soffrirla, fu forza che si rompesse. Onde, come che molto mi piacesse non esser così la cosa come sognato avea, pur non di meno la paura e 'l suspetto del veduto sogno mi rimase nel core, per forma che tutto bagnato di lacrime non possendo più dormire, fui costretto per minor mia pena a levarmi e, benché ancora notte fusse, uscire per le fosche campagne. Così di passo in passo, non sapendo io stesso ove andare mi dovesse, guidandomi la Fortuna, pervenni finalmente a la falda di un monte, onde un gran fiume si movea, con un ruggito e mormorio mirabile, massimamente in quella ora che altro romore non si sentiva. 6 E stando qui per bono spazio, la Aurora già incominciava a rosseggiare nel cielo, risvegliando universalmente i mortali a le opre loro. La quale per me umilmente adorata, e pregata volesse prosperare i miei sogni, parve che poco ascoltasse e men curasse le parole mie. Ma dal vicino fiume, senza avvedermi io come, in un punto mi si offerse avanti una giovene doncella ne l'aspetto bellissima, e nei gesti e ne l'andare veramente divina; la cui veste era di un drappo sottilissimo e sì rilucente che, se non che morbido il vedea, avrei per certo detto che di cristallo fusse; con una nova ravolgetura di capelli, sovra i quali una verde ghirlanda portava, et in mano un vasel di marmo bianchissimo. Costei venendo vèr me e dicendomi: «Séguita i passi miei, ch'io son Ninfa di questo luogo», tanto di venerazione e di paura mi porse inseme, che attonito, senza rispondergli e non sapendo io stesso discernere s'io pur veghiasse o veramente ancora dormisse, mi pusi a seguitarla. E giunto con lei sopra al fiume, vidi subitamente le acque da l'un lato e da l'altro restringersi e dargli luogo per mezzo; cosa veramente strana a vedere, orrenda a pensare, mostrosa e forse incredibile ad udire. Dubitava io andargli appresso, e già mi era per paura fermato in su la riva; ma ella piacevolmente dandomi animo mi prese per mano, e con somma amorevolezza guidandomi, mi condusse dentro al fiume. Ove senza bagnarmi piede seguendola, mi vedeva tutto circondato da le acque, non altrimente che se andando per una stretta valle mi vedesse soprastare duo erti argini o due basse montagnette. 7 Venimmo finalmente in la grotta onde quella acqua tutta usciva, e da quella poi in un'altra, le cui volte, sì come mi parve di comprendere, eran tutte fatte di scabrose pomici; tra le quali in molti luoghi si vedevano pendere stille di congelato cristallo, e dintorno a le mura per ornamento poste alcune marine cochiglie; e 'l suolo per terra tutto coverto di una minuta e spessa verdura, con bellissimi seggi da ogni parte, e colonne di translucido vetro, che sustinevano il non alto tetto. E quivi dentro sovra verdi tappeti trovammo alcune Ninfe sorelle di lei, che con bianchi e sottilissimi cribri cernivano oro separandolo da le minute arene. Altre filando il riducevano in mollissimo stame, e quello con sete di diversi colori intessevano in una tela di meraviglioso artificio; ma a me, per lo argomento che in sé contineva, augurio infelicissimo di future lacrime. Con ciò sia cosa che nel mio intrare trovai per sòrte che tra li molti ricami tenevano allora in mano i miserabili casi de la deplorata Euridice; sì come nel bianco piede punta dal velenoso aspide fu costretta di esalare la bella anima, e come poi per ricoprarla discese a l'inferno, e ricoprata la perdé la seconda volta lo smemorato marito. Ahi lasso, e quali percosse, vedendo io questo, mi sentii ne l'animo, ricordandomi de' passati sogni! e non so qual cosa il core mi presagiva, che benché io non volesse, mi trovava gli occhi bagnati di lacrime, e quanto vedeva, interpretava in sinestro senso. 8 Ma la Ninfa che mi guidava, forse pietosa di me, togliendomi quindi, mi fe' passare più oltre, in un luogo più ampio e più spazioso, ove molti laghi si vedevano, molte scaturigini, molte spelunche, che rifundevano acque, da le quali i fiumi che sovra la terra correno prendono le loro origini. O mirabile artificio del grande Idio! La terra che io pensava che fusse soda, richiude nel suo ventre tante concavità! Allora incominciai io a non maravigliarmi de' fiumi, come avesseno tanta abondanza, e come con indeficiente liquore serbasseno eterni i corsi loro. Così passando avanti tutto stupefatto e stordito dal gran romore de le acque, andava mirandomi intorno, e non senza qualche paura considerando la qualità del luogo ove io mi trovava. Di che la mia Ninfa accorgendosi: 9 - Lascia - mi disse - cotesti pensieri, et ogni timore da te discaccia; ché non senza voluntà del cielo fai ora questo camino. I fiumi che tante fiate uditi hai nominare, voglio che ora vedi da che principio nascano. Quello che corre sì lontano di qui, è il freddo Tanai; quel altro è il gran Danubio; questo è il famoso Meandro; questo altro è il vecchio Peneo; vedi Caistro; vedi Acheloo; vedi il beato Eurota, a cui tante volte fu lecito ascoltare il cantante Apollo. E perché so che tu desideri vedere i tuoi, i quali per aventura ti son più vicini che tu non avisi, sappi che quello a cui tutti gli altri fanno tanto onore, è il triunfale Tevere, il quale non come gli altri è coronato di salci o di canne, ma di verdissimi lauri, per le continue vittorie de' suoi figliuoli. Gli altri duo che più propinqui gli stanno, sono Liri e Vulturno, i quali per li fertili regni de' tuoi antichi avoli felicemente discorreno. - 10 Queste parole ne l'animo mio destaro un sì fatto desiderio, che non possendo più tenere il silenzio, così dissi: 11 - O fidata mia scorta, o bellissima Ninfa, se fra tanti e sì gran fiumi il mio picciolo Sebeto può avere nome alcuno, io ti prego che tu mel mostri. - 12 - Ben lo vedrai tu disse ella quando li sarai più vicino, Ché adesso per la sua bassezza non potresti. - E volendo non so che altra cosa dire, si tacque. 13 Per tutto ciò i passi nostri non si allentarono, ma continuando il camino, andavamo per quel gran vacuo, il quale alcuna volta si restringea in angustissime vie, alcuna altra si diffundea in aperte e larghe pianure; e dove monti, e dove valli trovavamo, non altrimente che qui sovra la terra essere vedemo. 14 - Maravigliarestiti tu - disse la Ninfa - se io ti dicesse che sovra la testa tua ora sta il mare? e che per qui lo inamorato Alfeo, senza mescolarsi con quello, per occolta via ne va a trovare i soavi abbracciamenti de la siciliana Aretusa? - 15 Così dicendo, cominciammo da lunge a scoprire un gran foco et a sentire un puzzo di solfo. Di che vedendo ella che io stava maravigliato, mi disse: 16 - Le pene de' fulminati Giganti, che volsero assalire il cielo son di questo cagione; i quali, oppressi da gravissime montagne, spirano ancora il celeste foco, con che furono consumati. Onde avviene che sì come in altre parti le caverne abondano di liquide acque, in queste ardeno sempre di vive fiamme. E se non che io temo che forse troppo spavento prenderesti, io ti farei vedere il superbo Encelado disteso sotto la gran Trinacria eruttar foco per le rotture di Mongibello; e similmente la ardente fucina di Vulcano, ove li ignudi Ciclopi sovra le sonanti ancudini batteno i tuoni a Giove; et appresso poi sotto la famosa Enaria, la quale voi mortali chiamate Ischia, ti mostrarei il furioso Tifeo, dal quale le estuanti acque di Baia e i vostri monti del solfo prendono il lor calore. Così ancora sotto il gran Vesevo ti farei sentire li spaventevoli muggiti del gigante Alcioneo; benché questi credo gli sentirai, quando ne avvicinaremo al tuo Sebeto. Tempo ben fu che con lor danno tutti i finitimi li sentirono, quando con tempestose fiamme con cenere coperse i circonstanti paesi, sì come ancora i sassi liquefatti et arsi testificano chiaramente a chi gli vede. Sotto ai quali chi sarà mai che creda che e populi e ville e città bilissime siano sepolte? Come veramente vi sono, non solo quelle che da le arse pomici e da la mina del monte furon coperte, ma questa che dinanzi ne vedemo, la quale senza alcun dubbio celebre città un tempo nei tuoi paesi, chiamata Pompei, et irrigata da le onde del freddissimo Sarno, fu per sùbito terremoto inghiottita da la terra, mancandoli credo sotto ai piedi il firmamento ove fundata era. Strana per certo et orrenda maniera di morte, le genti vive vedersi in un punto tòrre dal numero de' vivi! Se non che finalmente sempre si arriva ad un termino, né più in là che a la morte si puote andare. 17 E già in queste parole eramo ben presso a la città che lei dicea, de la quale e le torri e le case e i teatri e i templi si poteano quasi integri discernere. Maravigliaimi io del nostro veloce andare, che in sì breve spazio di tempo potessemo da Arcadia insino qui essere arrivati; ma si potea chiaramente conoscere che da potenzia maggiore che umana eravamo sospinti. Così a poco a poco cominciammo a vedere le picciole onde di Sebeto. Di che vedendo la Ninfa che io mi allegrava, mandò fuore un gran sospiro, e tutta pietosa vèr me volgendosi, disse: - Omai per te puoi andare -. E così detto disparve, né più si mostrò agli occhi miei. 18 Rimasi io in quella solitudine tutto pauroso e tristo, e vedendomi senza la mia scorta, appena arei avuto animo di movere un passo, se non che dinanzi agli occhi mi vedea lo amato fiumicello. Al quale dopo breve spazio appressatomi, andava desideroso con gli occhi cercando se veder potesse il principio onde quella acqua si movea; perché di passo in passo il suo corso pareva che venisse crescendo et acquistando tuttavia maggior forza. Così per occolto canale indrizzatomi, tanto in qua et in là andai, che finalmente arrivato ad una grotta cavata ne l'aspro tofo, trovai in terra sedere il venerando Idio, col sinestro fianco appoggiato sovra un vaso di pietra che versava acqua; la quale egli in assai gran copia facea maggiore con quella che dal volto, da' capelli e da' peli de la umida barba piovendoli continuamente vi aggiungeva. I suoi vestimenti a vedere parevano di un verde limo; in la destra mano teneva una tenera canna, et in testa una corona intessuta di giuochi e di altre erbe provenute da le medesme acque. E dintorno a lui con disusato mormorio le sue Ninfe stavano tutte piangendo, e senza ordine o dignità alcuna gittate per terra non alzavano i mesti volti. 19 Miserando spettacolo, vedendo io questo, si offerse agli occhi miei. E già fra me cominciai a conoscere per qual cagione inanzi tempo la mia guida abandonato mi avea; ma trovandomi ivi condotto, né confidandomi di tornare più indietro, senza altro consiglio prendere, tutto doloroso e pien di sospetto mi inclinai a basciar prima la terra, e poi cominciai queste parole: 20 - O liquidissimo fiume, o Re del mio paese, o piacevole e grazioso Sebeto, che con le tue chiare e freddissime acque irrighi la mia bella patria, Dio ti esalte! Dio vi esalte, o Ninfe, generosa progenie del vostro padre! Siate, prego, propizie al mio venire, e benigne et umane tra le vostre selve mi ricevete. Baste fin qui a la mia dura Fortuna avermi per diversi casi menato; ormai, o reconciliata o sazia de le mie fatiche, deponga le arme. 21 Non avea ancora io fornito il mio dire, quando da quella mesta schiera due Ninfe si mossono, e con lacrimosi volti vèr me venendo, mi pusero mezzo tra loro. De le quali una alquanto più che l'altra col viso levato, prendendomi per mano, mi menò verso la uscita, ove quella picciola acqua in due parti si divide, l'una effundendosi per le campagne, l'altra per occolta via andandone a' commodi et ornamenti de la città. E quivi fermatasi, mi mostrò il camino, significandomi in mio arbitrio essere omai lo uscire. Poi per manifestarmi chi esse fusseno, mi disse: 22 - Questa, la qual tu ora da nubilosa caligine oppresso pare che non riconoschi, è la bella Ninfa che bagna lo amato nido de la tua singulare Fenice; il cui liquore tante volte insino al colmo da le tue lacrime fu aumentato. Me, che ora ti parlo, troverai ben tosto sotto le pendici del monte ove ella si posa. - E 'l dire di queste parole, e 'l convertirsi in acqua, e l'aviarsi per la coverta via, fu una medesma cosa. 23 Lettore, io ti giuro, se quella deità che in fin qui di scriver questo mi ha prestato grazia, conceda, qualunque elli si siano, immortalità agli scritti miei, che io mi trovai in tal punto sì desideroso di morire, che di qualsivoglia maniera di morte mi sarei contentato. Et essendo a me medesmo venuto in odio, maladissi l'ora che da Arcadia partito mi era, e qualche volta intrai in speranza che quello che io vedeva et udiva fusse pur sogno; massimamente non sapendo fra me stesso stimare, quanto stato fusse lo spazio ch'io sotterra dimorato era. Così tra pensieri, dolore e confusione, tutto lasso e rotto, e già fuora me, mi condussi a la designata fontana. La quale sì tosto come mi sentì venire, cominciò forte a bollire et a gorgogliare più che il solito, quasi dir mi volesse: - Io son colei cui tu poco inanzi vedesti. - Per la qual cosa girandomi io da la destra mano, vidi e riconobbi il già detto colle, famoso molto per la bellezza de l'alto tugurio che in esso si vede, denominato da quel gran bifolco Africano, rettore di tanti armenti, il quale a' suoi tempi, quasi un altro Anfione, col suono de la soave cornamusa edificò le eterne mura de la divina cittade. 24 E volendo io più oltre andare, trovai per sòrte appiè de la non alta salita Barcinio e Summonzio, pastori fra le nostre selve notissimi, i quali con le loro gregge al tepido sole, però che vento facea, si erano retirati, e, per quanto dai gesti comprender si potea, mostravano di voler cantare. Onde io, benché con orecchie piene venisse de' canti di Arcadia, pur per udire quelli del mio paese e vedere in quanto gli si avvicinasseno, non mi parve disdicevole il fermarmi; et a tanto altro tempo per me sì malamente dispeso, questo breve spazio, questa picciola dimoranza ancora aggiungere. Così non molto discosto da loro, sovra la verde erba mi pusi a giacere. A la qual cosa mi porse ancor animo il vedere che da essi conosciuto non era; tanto il cangiato abito e 'l soverchio dolore mi aveano in non molto lungo tempo transfigurato. Ma rivolgendomi ora per la memoria il lor cantare, e con quali accenti i casi del misero Meliseo deplorasseno, mi piace sommamente con attenzione avergli uditi; non già per conferirli con quegli che di là ascoltai, né per porre queste canzoni con quelle, ma per allegrarmi del mio cielo, che non del tutto vacue abbia voluto lasciare le sue selve; le quali in ogni tempo nobilissimi pastori han da sé produtti, e dagli altri paesi con amorevoli accoglienze e materno amore a sé tirati. Onde mi si fa leggiero il credere, che da vero in alcun tempo le Sirene vi abitasseno, e con la dolcezza del cantare detinesseno quegli che per la lor via si andavano. Ma tornando omai ai nostri pastori, poi che Barcinio per buono spazio assai dolcemente sonata ebbe la sua sampogna, cominciò così a dire, col viso rivolto verso il compagno; il quale similmente assiso in una pietra, stava per rispondergli attentissimo:
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