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Iacobus Sannazarius Arcadia IntraText CT - Lettura del testo |
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Ecloga dodicesima - Barcinio, Summonzio, Meliseo
Qui cantò Meliseo, qui proprio assisimi, quand'ei scrisse in quel faggio: - Vidi, io misero, vidi Filli morire, e non uccisimi. -
Oh pietà grande! E quali Dii permisero a Meliseo venir fato tant'aspero? perché di vita pria non lo divisero?
Quest'è sol la cagione ond'io mi esaspero incontra 'l cielo, anzi mi indrago e invipero, e via più dentro al cor mi induro e inaspero, pensando a quel che scrisse in un giunipero: - Filli, nel tuo morir morendo lassimi. - Oh dolor sommo, a cui null'altro equipero!
Questa pianta vorrei che tu mostrassimi, per poter a mia posta in quella piangere; forse a dir le mie pene oggi incitassimi!
Mille ne son, che qui vedere e tangere a tua posta potrai; cerca in quel nespilo; ma destro nel toccar, guarda nol frangere.
- Quel biondo crine, o Filli, or non increspilo con le tue man, né di ghirlande infiorilo, ma del mio lacrimar lo inerbi e incespilo. -
Volgi in qua gli occhi e mira in su quel corilo: - Filli, deh non fuggir, ch'io seguo; aspettami, portane il cor, che qui lasciando accorilo. -
Dir non potrei quanto lo udir dilettami; ma cerca ben se v'è pur altro arbuscolo, quantunque il mio bisogno altrove affrettami.
Una tabella puse per munuscolo in su quel pin. Se vuoi vederla, or àlzati, ch'io ti terrò su l'uno e l'altro muscolo. Ma per miglior salirvi, prima scàlzati, e depon qui la pera, il manto e 'l bacolo, e con un salto poi ti apprendi e sbàlzati.
Quinci si vede ben, senz'altro ostacolo - Filli, quest'alto pino io ti sacrifico; qui Diana ti lascia l'arco e 'l iacolo, Questo è l'altar che in tua memoria edifico; quest'è 'l tempio onorato, e questo è il tumulo in ch'io piangendo il tuo bel nome amplifico. Qui sempre ti farò di fiori un cumulo: ma tu, se 'l più bel luogo il ciel destìnati, non disprezzar ciò che in tua gloria accumulo. Vèr noi più spesso omai lieta avicìnati; e vedrai scritto un verso in su lo stipite: «Arbor di Filli io son; pastore, inclìnati». -
Or che dirai, quand'ei gittò precipite quella sampogna sua dolce et amabile, e per ferirsi prese il ferro ancipite? Non gian con un suon tristo e miserabile, «Filli, Filli» gridando tutti i calami? che pur parve ad udir cosa mirabile.
Or non si mosse da' superni talami Filli a tal suon? ch'io già tutto commovomi; tanta pietà il tuo dir nel petto esalami.
Taci, mentre fra me ripenso, e provomi se quell'altre sue rime or mi ricordano, de le quali il principio sol ritrovomi.
Tanto i miei sensi al tuo parlar si ingordano, che temprar non gli so. Comincia, agiùtati; ché ai primi versi poi gli altri s'accordano.
- Che farai, Meliseo? Morte refùtati, poi che Filli t'ha posto in doglia e lacrime, né più, come solea, lieta salùtati. Dunque, amici pastor, ciascun consacrime versi sol di dolor, lamenti e ritimi; e chi altro non può, meco collacrime. A pianger col suo pianto ognuno incitimi ognun la pena sua meco communiche, benché 'l mio duol da sé dì e notte invitimi. Scrissi i miei versi in su le poma puniche, e ratto diventàr sorba e corbezzoli; sì son le sòrti mie mostrose et uniche. E se per inestar li incido o spezzoli, mandan sugo di fuor sì tinto e livido, che mostran ben che nel mio amaro avezzoli. Le rose non han più quel color vivido, poi che 'l mio sol nascose i raggi lucidi, dai quai per tanto spazio oggi mi dìvido. Mostransi l'erbe e i fior languidi e mucidi, i pesci per li fiumi infermi e sontici, e gli animai nei boschi incolti e sucidi. Vegna Vesevo, e i suoi dolor racontici. Vedrem se le sue viti si lambruscano e se son li suoi frutti amari e pontici. Vedrem poi che di nubi ognor si offuscano le spalle sue, con l'uno e l'altro vertice; forse pur novi incendii in lui coruscano. Ma chi verrà che de' tuoi danni accertice Mergilina gentil, che sì ti inceneri, e i lauri tuoi son secche e nude pertice? Antiniana, e tu perché degeneri? Perché ruschi pungenti in te diventano quei mirti che fur già sì molli e teneri? Dimmi, Nisida mia (così non sentano le rive tue giamai crucciata Dorida, né Pausilipo in te venir consentano!), non ti vid'io poc'anzi erbosa e florida, abitata da lepri e da cuniculi? Non ti veggi'or più c'altra incolta et orida? Non veggio i tuoi recessi e i diverticuli tutti cangiati, e freddi quelli scopuli dove temprava Amor suo' ardenti spiculi? Quanti pastor, Sebeto, e quanti populi morir vedrai di quei che in te s'annidano, pria che la riva tua si inolmi o impopuli! Lasso, già ti onorava il grande Eridano, e 'l Tebro al nome tuo lieto inchinavasi; or le tue Ninfe appena in te si fidano. Morta è colei che al tuo bel fonte ornavasi e preponea il tuo fondo a tutt'i specoli: onde tua fama al ciel volando alzavasi. Or vedrai ben passar stagioni e secoli, e cangiar rastri, stive, aratri e capoli, pria che mai sì bel volto in te si specoli. Dunque, miser, perché non rompi e scapoli tutte l'onde in un punto et inabissiti, poi che Napoli tua non è più Napoli? Questo dolore, oimè, pur non predissiti quel giorno, o patria mia, c'allegro et ilare tante lode, cantando, in carta scrissiti. Or vo' che 'l senta pur Vulturno e Silare c'oggi sarà fornita la mia fabula, né cosa verrà mai che 'l cor mi esilare. Né vedrò mai per boschi sasso o tabula ch'io non vi scriva «Filli», acciò che piangane qualunque altro pastor vi pasce o stabula. E se avverrà che alcun che zappe o mangane, da qualche fratta, ov'io languisca, ascoltemi, dolente e stupefatto al fin rimangane. Ma pur convien che a voi spesso rivoltemi, luoghi, un tempo al mio cor soavi e lepidi, poi che non trovo ove piangendo occoltemi. O Cuma, o Baia, o fonti ameni e tepidi, or non fia mai che alcun vi lodi o nomini, che 'l mio cor di dolor non sude e trepidi. E poi che morte vuol che vita abomini, quasi vacca che piange la sua vitula andrò noiando il ciel, la terra e gli uomini. Non vedrò mai Lucrino, Averno o Tritula, che con sospir non corra a quella ascondita valle, che dal mio sogno ancor si intitula. Forse qualche bella orma ivi recondita lasciàr quei santi piè, quando fermarosi al suon de la mia voce aspra et incondita; e forse i fior che lieti allor mostrarosi faran gir li miei sensi infiati e tumidi de l'alta vision ch'ivi sognarosi. Ma come vedrò voi, ardenti e fumidi monti, dove Vulcan bollendo insolfasi, che gli occhi miei non sian bagnati et umidi? Però che ove quell'acqua irata ingolfasi, ove più rutta al ciel la gran voragine e più grave lo odor redunda et olfasi, veder mi par la mia celeste imagine sedersi, e con diletto in quel gran fremito tener le orecchie intente a le mie pagine. Oh lasso, oh dì miei vòlti in pianto e gemito! Dove viva la amai, morta sospirola, e per quell'orme ancor m'indrizzo e insemito. Il giorno sol fra me contemplo e mirola, e la notte la chiamo a gridi altissimi; tal che sovente in fin qua giù ritirola. Sovente il dardo, ond'io stesso trafissimi, mi mostra in sogno entro i begli occhi, e dicemi: «ECco il rimedio di tuoi pianti asprissimi». E mentre star con lei piangendo licemi, avrei poter di far pietoso un aspide; sì cocenti sospir dal petto elicemi. Né grifo ebbe giamai terra arimaspide sì crudo, oimè, c'al dipartir sì sùbito non desiasse un cor di dura iaspide. Ond'io rimango in sul sinestro cubito mirando, e parmi un sol che splenda e rutile; e così verso lei gridar non dubito: «Qual tauro in selva con le corna mutile, e quale arbusto senza vite o pampino, tal sono io senza te, manco e disutile». -
Dunque esser può che dentro un cor si stampino sì fisse passion di cosa mobile, e del foco già spento i sensi avampino? Qual fiera sì crudel, qual sasso immobile tremar non si sentisse entro le viscere al miserabil suon del canto nobile?
E' ti parrà che 'l ciel voglia deiscere, se sentrai lamentar quella sua citera, e che pietà ti roda, amor ti sviscere. La qual, mentre pur «Filli» alterna et itera, e «Filli» i sassi, i pin «Filli» rispondono, ogni altra melodia dal cor mi oblitera.
Or dimmi, a tanto umor che gli occhi fondono, non vide mover mai lo avaro carcere di quelle inique Dee che la nascondono?
- O Atropo crudel, potesti parcere a Filli mia - gridava -; o Cloto, o Lachesi, deh consentite omai ch'io mi discarcere! -
Moran gli armenti, e per le selve vachesi in arbor fronda, in terra erba non pulule, poi che è pur ver che 'l fiero ciel non plachesi.
Vedresti intorno a lui star cigni et ulule, quando avvien che talor con la sua lodola si lagne, e quella a lui risponda et ulule. O ver quando in su l'alba esclama e modola: - Ingrato sol, per cui ti affretti a nascere? Tua luce a me che val, s'io più non godola? Ritorni tu, perch'io ritorne a pascere gli armenti in queste selve? o perché struggami? o perché più vèr te mi possa irascere? Se 'l fai che al tuo venir la notte fuggami, sappi che gli occhi usati in pianto e tenebre non vo' che 'l raggio tuo rischiare o suggami. Ovunque miro, par che 'l ciel si ottenebre, ché quel mio sol che l'altro mondo allumina, è or cagion ch'io mai non mi distenebre. Qual bove all'ombra che si posa e rumina, mi stava un tempo; et or, lasso, abandonomi, qual vite che per pal non si statumina. Talor mentre fra me piango e ragionomi, sento la lira dir con voci querule: «Di lauro, o Meliseo, più non coronomi». Talor veggio venir frisoni e merule ad un mio roscignuol che stride e vocita: «Voi meco, o mirti, e voi piangete, o ferule». Talor d'un'alta rupe il corbo crocita: «Assorbere a tal duolo il mar devrebbesi, Ischia, Capre, Ateneo, Miseno e Procita». La tortorella, che al tuo grembo crebbesi, poi mi si mostra, o Filli, sopra un alvano secco, ché in verde già non poserebbesi; e dice: «ECco che i monti già si incalvano; o vacche, ecco le nevi e i tempi nubili; qual'ombre o qua' difese omai vi salvano?». Chi fia che, udendo ciò, mai rida o giubili? E' par che i tori a me, muggendo, dicano: «Tu sei, che con sospir quest'aria annubili». -
Con gran ragion le genti s'affaticano per veder Meliseo, poi che i suoi cantici son tai che ancor nei sassi amor nutricano.
Ben sai tu, faggio, che coi rami ammantici, quante fiate a' suoi sospir movendoti ti parve di sentir suffioni o mantici. O Meliseo, la notte e 'l giorno intendoti, e sì fissi mi stan gli accenti e i sibili nel petto, che, tacendo ancor, comprendoti.
Deh, se ti cal di me, Barcinio, scribili, a tal che poi, mirando in questi cortici, l'un arbor per pietà con l'altro assibili. Fa che del vento il mormorar confortici, fa che si spandan le parole e i numeri, tal che ne sone ancor Resina e Portici.
Un lauro gli vid'io portar su gli umeri, e dir: - Col bel sepolcro, o lauro, abbràcciati, mentre io semino qui menta e cucumeri. Il cielo, o diva mia, non vuol ch'io tàcciati, anzi, perché ognor più ti onori e celebre, dal fondo del mio cor mai non discàcciati. Onde con questo mio dir non incelebre, s'io vivo, ancor farò tra questi rustici la sepoltura tua famosa e celebre. E da' monti toscani e da' ligustici verran pastori a venerar quest'angulo, sol per cagion che alcuna volta fustici. E leggeran nel bel sasso quadrangulo il titol che a tutt'ore il cor m'infrigida, per cui tanto dolor nel petto strangulo: «Quella che a Meliseo sì altera e rigida si mostrò sempre, or mansueta et umile si sta sepolta in questa pietra frigida». -
Se queste rime troppo dir presumile, Barcinio mio, tra queste basse pergole, ben veggio che col fiato un giorno allumile.
Summonzio, io per li tronchi scrivo e vergole, e perché la lor fama più dilatesi, per longinqui paesi ancor dispergole; tal che farò che 'l gran Tesino et Atesi, udendo Meliseo, per modo il cantino, che Filli il senta et a se stessa aggratesi; e che i pastor di Mincio poi gli piantino un bel lauro in memoria del suo scrivere, ancor che del gran Titiro si vantino.
Degno fu Meliseo di sempre vivere con la sua Filli, e starsi in pace amandola; ma chi può le sue leggi al ciel prescrivere?
Solea spesso per qui venir chiamandola; or davanti un altare, in su quel culmine, con incensi si sta sempre adorandola.
Deh, socio mio, se 'l ciel giamai non fulmine ove tu pasca, e mai per vento o grandine la capannuola tua non si disculmine; qui sovra l'erba fresca il manto spandine, e poi corri a chiamarlo in su quel limite; forse impetri che 'l ciel la grazia mandine.
Più tosto, se vorrai che 'l finga et imite, potrò cantar; ché farlo qui discendere leggier non è, come tu forse estimite.
Io vorrei pur la viva voce intendere, per notar de' suoi gesti ogni particola; onde, s'io pecco in ciò, non mi riprendere.
Poggiamo, orsù, vèr quella sacra edicola; ché del bel colle e del sorgente pastino lui solo è il sacerdote e lui lo agricola. Ma prega tu che i vènti non tel guastino, ch'io ti farò fermar dietro a quei frutici, pur che a salir fin su l'ore ne bastino.
Voto fo io, se tu, Fortuna, agiutici, una agna dare a te de le mie pecore, una a la Tempestà, che 'l ciel non mutici. Non consentire, o ciel, ch'io mora indecore; ché sol pensando udir quel suo dolce organo, par che mi spolpe, snerve e mi disiecore.
Or via, che i fati a bon camin ne scorgano! Non senti or tu sonar la dolce fistula? Férmati omai, che i can non se ne accorgano.
I tuoi capelli, o Filli, in una cistula serbati tegno, e spesso, quand'io volgoli, il cor mi passa una pungente aristula. Spesso gli lego e spesso, oimè, disciolgoli, e lascio sopra lor quest'occhi piovere; poi con sospir gli asciugo, e inseme accolgoli. Basse son queste rime, esili e povere; ma se 'l pianger in cielo ha qualche merito, dovrebbe tanta fé Morte commovere. Io piango, o Filli, il tuo spietato interito, e 'l mondo del mio mal tutto rinverdesi. Deh pensa, prego, al bel viver preterito, se nel passar di Lete amor non perdesi.
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