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Iacobus Sannazarius
Arcadia

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  • Ecloga decima - Selvaggio, Fronimo
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Ecloga decima - Selvaggio, Fronimo

 

SELVAGGIO

Non son, Fronimo mio, del tutto mutole,

com'uom crede, le selve; anzi risonano,

tal che quasi all'antiche egual riputole.

 

FRONIMO

Selvaggio, oggi i pastor più non ragionano

de l'alme Muse, e più non pregian naccari,

perché, per ben cantar, non si coronano.

E sì del fango ognun s'asconde i zaccari,

che tal più pute che ebuli et abrotano

e par che odore più che ambrosia e baccari.

Ond'io temo gli Dii non si riscotano

dal sonno, e con vendetta ai boni insegnino

sì come i falli de' malvagi notano.

E s'una volta avvien che si disdegnino,

non fia mai poi balen né tempo pluvio,

che di tornar al ben pur non si ingegnino.

 

SELVAGGIO

Amico, io fui tra Baie e 'l gran Vesuvio

nel lieto piano, ove col mar congiungesi

il bel Sebeto, accolto in picciol fluvio.

Amor, che mai dal cor mio non disgiungesi,

mi fe' cercare un tempo strane fiumora,

ove l'alma, pensando, ancor compungesi.

E s'io passai per pruni, urtiche e dumora,

le gambe il sanno; e se timor mi pusero

crudi orsi, dure genti, aspre costumora!

Al fin le dubbie sòrti mi rispusero:

- Cerca l'alta cittade ove i Calcidici

sopra 'l vecchio sepolcro si confusero. -

Questo non intens'io; ma quei fatidici

pastor mel fer poi chiaro e mel mostrarono,

tal ch'io gli vidi nel mio ben veridici.

Indi incantar la luna m'insegnarono,

e ciò che in arte maga al tempo nobile

Alfesibeo e Meri si vantarono.

Né nasce erbetta sì silvestra ignobile,

che 'n quelle dotte selve non conoscasi;

e quale stella è fissa, e quale è mobile.

Quivi la sera, poi che 'l ciel rinfoscasi,

certa l'arte febea con la palladia,

che non c'altri, ma Fauno a udir rimboscasi.

Ma a guisa d'un bel sol fra tutti radia

Caracciol, che 'n sonar sampogne o cetere

non troverebbe il pari in tutta Arcadia.

Costui non imparò putare o metere,

ma curar greggi da la infetta scabbia

e passion sanar maligne e vetere.

Il qual un dì, per isfogar la rabbia,

così prese a cantar sotto un bel frassino,

io fiscelle tessendo, egli una gabbia:

- Proveda il ciel che qui vèr noi non passino

malvage lingue; e le benigne fatora

fra questi armenti respirar mi lassino.

Itene, vaccarelle, in quelle pratora,

acciò che quando i boschi e i monti imbrunano,

ciascuna a casa ne ritorne satora.

Quanti greggi et armenti, oimè, digiunano,

per non trovar pastura, e de le pampane

si van nudrendo, che per terra adunano!

Lasso, c'appena di mill'una càmpane;

e ciascun vive in tanto estrema inopia,

che 'l cor per doglia sospirando avampane.

Ringrazie dunque il ciel qualunque ha copia

d'alcun suo bene in questa vil miseria,

che ciascun caccia da la mandra propia.

I bifolci e i pastor lascian Esperia,

le selve usate e le fontane amabili;

ché 'l duro tempo glie ne dà materia.

Erran per alpe incolte inabitabili,

per non veder oppresso il lor peculio

da genti strane, inique, inesorabili.

Le qua' per povertà d'ogni altro edulio,

non già per aurea età, ghiande pascevano

per le lor grotte da l'agosto al giulio.

Viven di preda qui, come solevano

fra quei primi pastor nei boschi etrurii.

Deh c'or non mi sovien qual nome avevano!

So ben che l'un da più felici augurii

fu vinto e morto - or mi ricorda, Remo -

in su l'edificar de' lor tugurii.

Lasso, che 'n un momento io sudo e tremo

e veramente temo d'altro male;

ché si de' aver del sale in questo stato,

perché 'l comanda il Fato e la Fortuna.

Non vedete la luna ineclissata?

La fera stella armata di Orione?

Mutata è la stagione e 'l tempo è duro,

e già s'attuffa Arcturo in mezzo l'onde;

e 'l sol, c'a noi s'asconde, ha i raggi spenti,

e van per l'aria i vènti mormorando,

né so pur come o quando torne estate.

E le nubi spezzate fan gran suoni;

tanti baleni e tuoni han l'aria involta,

ch'io temo un'altra volta il mondo pera.

O dolce primavera, o fior novelli,

o aure, o arboscelli, o fresche erbette,

o piagge benedette, o colli, o monti,

o valli, o fiumi, o fonti, o verdi rive,

palme, lauri et olive, edere e mirti;

o gloriosi spirti degli boschi;

o Eco, o antri foschi, o chiare linfe,

o faretrate Ninfe, o agresti Pani,

o Satiri e Silvani, o Fauni e Driadi,

Naiadi et Amadriadi, o semidee,

Oreadi e Napee, or sète sole;

secche son le viole in ogni piaggia:

ogni fiera selvaggia, ogni ucelletto

che vi sgombrava il petto, or vi vien meno.

E 'l misero Sileno vecchiarello

non trova l'asinello ov'ei cavalca.

Dafni, Mopso e Menalca, oimè, son morti.

Priapo è fuor degli orti senza falce,

né genebro né salce è che 'l ricopra.

Vertunno non s'adopra in transformarse,

Pomona ha rotte e sparse le sue piante,

né vòl che le man sante puten legni.

E tu, Pale, ti sdegni per l'oltraggio,

ché di april né di maggio hai sacrificio.

Ma s'un commette il vicio, e tu nol reggi,

che colpa n'hanno i greggi de' vicini?

Che sotto gli alti pini e i dritti abeti

si stavan mansueti a prender festa

per la verde foresta a suon d'avena;

quando, per nostra pena, il cieco errore

entrò nel fiero core al neghittoso.

E già Pan furioso con la sanna

spezzò l'amata canna; ond'or piangendo,

se stesso riprendendo, Amor losinga,

ché de la sua Siringa si ricorda.

La saette, la corda, l'arco e 'l dardo,

c'ogni animal fea tardo, omai Diana

dispregia, e la fontana ove il protervo

Atteon divenne cervo; e per campagne

lassa le sue compagne senza guida;

cotanto si disfida omai del mondo,

che vede ognor al fondo gir le stelle.

Marsia senza pelle ha guasto il bosso,

per cui la carne e l'osso or porta ignudo;

Minerva il fiero scudo irata vibra;

Apollo in Tauro o in Libra non alberga,

ma con l'usata verga al fiume Anfriso

si sta dolente, assiso in una pietra,

e tien la sua faretra sotto ai piedi.

Ahi, Giove, e tu tel vedi? E non ha lira

da pianger, ma sospira, e brama il giorno

che 'l mondo intorno intorno si disfaccia

e prenda un'altra faccia più leggiadra.

Bacco con la sua squadra senza Tirsi

vede incontro venirsi il fiero Marte

armato, e 'n ogni parte farsi strada

con la cruenta spada. Ahi vita trista!

Non è chi gli resista. Ahi fato acerbo!

ahi ciel crudo e superbo! Ecco che 'l mare

si comincia a turbare, e 'ntorno ai liti

stan tutti sbigottiti i Dii dell'acque,

perché a Nettuno piacque esilio darli

e col tridente urtarli in su la guancia.

La donna e la bilancia è gita al cielo.

Gran cose in picciol velo oggi restringo.

Io ne l'aria dipingo, e tal si stende

che forse non intende il mio dir fosco.

Dormasi fuor del bosco. Or quando mai

ne pensàr tanti guai bestemmie antiche?

Gli ucelli e le formiche si ricolgono

de' nostri campi il desiato tritico;

così gli Dii la libertà ne tolgono.

Tal che assai meglio nel paese scitico

viven color sotto Boote et Elice,

benché con cibi alpestri e vin sorbitico.

Già mi rimembra che da cima un'élice

la sinestra cornice, oimè, predisselo;

ché 'l petto mi si fe' quasi una selice.

Lasso, che la temenza al mio cor fisselo,

pensando al mal che avvenne; e non è dubbio

che la Sibilla ne le foglie scrisselo.

Un'orsa, un tigre han fatto il fier connubbio.

Deh, perché non troncate, o Parche rigide,

mia tela breve al dispietato subbio?

Pastor, la noce che con l'ombre frigide

nòce a le biade, or ch'è ben tempo, trunchesi,

pria che per anni il sangue si rinfrigide.

Non aspettate che la terra ingiunchesi

di male piante, e non tardate a svellere,

fin che ogni ferro poi per forza adunchesi.

Tagliate tosto le radici all'ellere;

ché se col tempo e col poder s'aggravano,

non lasseranno i pini in alto eccellere. -

Così cantava, e i boschi rintonavano

con note, quai non so s'un tempo in Menalo,

in Parnaso o in Eurota s'ascoltavano.

E se non fusse che 'l suo gregge affrenalo

e tienlo a forza ne l'ingrata patria,

che a morte desiar spesso rimenalo,

verrebbe a noi, lassando l'idolatria

e gli ombrati costumi al guasto secolo,

fuor già d'ogni natia carità patria.

Et è sol di vertù sì chiaro specolo,

che adorna il mondo col suo dritto vivere;

degno assai più ch'io col mio dir non recolo.

Beata terra che 'l produsse a scrivere,

e i boschi, ai quai sì spesso è dato intendere

rime, a chi 'l ciel non pòte il fin prescrivere!

Ma l'empie stelle ne vorrei riprendere,

né curo io già, se col parlar mio crucciole;

sì ratto fer dal ciel la notte scendere,

che sperando udir più, vidi le lucciole.

 

 

 




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