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Torquato Tasso
Aminta

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Scena seconda - Aminta, Tirsi

 

[AMINTA] Ho visto al pianto mio

risponder per pietate i sassi e l'onde,

e sospirar le fronde

ho visto al pianto mio;

ma non ho visto mai,

spero di vedere,

compassion ne la crudele e bella,

che non so s'io mi chiami o donna o fera:

ma niega d'esser donna,

poiché nega pietate

a chi non la negaro

le cose inanimate.

[TIRSI] Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne,

ma il crudo Amor di lagrime si pasce,

né se ne mostra mai satollo. [AMINTA] Ahi, lasso,

ch'Amor satollo è del mio pianto omai,

e solo ha sete del mio sangue; e tosto

voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio

bevan con gli occhi. [TIRSI] Ahi, Aminta, ahi, Aminta,

che parli? o che vaneggi? Or ti conforta,

ch'un'altra troverai, se ti disprezza

questa crudele. [AMINTA] Ohimè, come poss'io

altri trovar, se me trovar non posso?

Se perduto ho me stesso, quale acquisto

farò mai che mi piaccia? [TIRSI] O miserello,

non disperar, ch'acquisterai costei.

La lunga etate insegna a l'uom di porre

freno ai leoni ed a le tigri ircane.

[AMINTA] Ma il misero non puote a la sua morte

indugio sostener di lungo tempo.

[TIRSI] Sarà corto l'indugio: in breve spazio

s'adira e in breve spazio anco si placa

femina, cosa mobil per natura

più che fraschetta al vento e più che cima

di pieghevole spica. Ma, ti prego,

fa ch'io sappia più a dentro de la tua

dura condizione e de l'amore;

ché, se ben confessato m'hai più volte

d'amare, mi tacesti però dove

fosse posto l'amore. Ed è ben degna

la fedele amicizia ed il commune

studio de le Muse ch'a me scuopra

ciò ch'agli altri si cela. [AMINTA] Io son contento,

Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti

e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.

Ch'io sono omai sì prossimo a la morte,

ch'è ben ragion ch'io lasci chi ridica

la cagion del morire, e che l'incida

ne la scorza d'un faggio, presso il luogo

dove sarà sepolto il corpo essangue;

sì che talor passandovi quell'empia

si goda di calcar l'ossa infelici

co 'l piè superbo, e tra sé dica: «È questo

pur mio trionfo»; e goda di vedere

che nota sia la sua vittoria a tutti

li pastori paesani e pellegrini

che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero

troppo alte cose) un giorno esser potrebbe

ch'ella, commossa da tarda pietate,

piangesse morto chi già vivo uccise,

dicendo: «Oh pur qui fosse, e fosse mio!»

Or odi. [TIRSI] Segui pur, ch'io ben t'ascolto,

e forse a miglior fin che tu non pensi.

[AMINTA] Essendo io fanciulletto, sì che a pena

giunger potea con la man pargoletta

a côrre i frutti dai piegati rami

degli arboscelli, intrinseco divenni

de la più vaga e cara verginella

che mai spiegasse al vento chioma d'oro.

La figliuola conosci di Cidippe

e di Montan, ricchissimo d'armenti,

Silvia, onor de le selve, ardor de l'alme?

Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa

così unito alcun tempo, che fra due

tortorelle più fida compagnia

non sarà mai, né fue.

Congiunti eran gli alberghi,

ma più congiunti i cori;

conforme era l'etate,

ma 'l pensier più conforme;

seco tendeva insidie con le reti

ai pesci ed agli augelli, e seguitava

i cervi seco e le veloci damme:

e 'l diletto e la preda era commune.

Ma, mentre io fea rapina d'animali,

fui non so come a me stesso rapito.

A poco a poco nacque nel mio petto,

non so da qual radice,

com'erba suol che per se stessa germini,

un incognito affetto,

che mi fea desiare

d'esser sempre presente

a la mia bella Silvia;

e bevea da' suoi lumi

un'estranea dolcezza,

che lasciava nel fine

un non so che d'amaro;

sospirava sovente, e non sapeva

la cagion de' sospiri.

Così fui prima amante ch'intendessi

che cosa fosse Amore.

Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo,

ora m'ascolta, e nota. [TIRSI] È da notare.

[AMINTA] A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli

sedean un giorno, ed io con loro insieme,

quando un'ape ingegnosa, che, cogliendo

sen' giva il mel per que' prati fioriti,

a le guancie di Fillide volando,

a le guancie vermiglie come rosa,

le morse e le rimorse avidamente:

ch'a la similitudine ingannata

forse un fior le credette. Allora Filli

cominciò lamentarsi, impaziente

de l'acuta puntura:

ma la mia bella Silvia disse: «Taci,

taci, non ti lagnar, Filli, perch'io

con parole d'incanti leverotti

il dolor de la picciola ferita.

A me insegnò già questo secreto

la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede

quel mio corno d'avolio ornato d'oro».

Così dicendo, avvicinò le labra

de la sua bella e dolcissima bocca

a la guancia rimorsa, e con soave

susurro mormorò non so che versi.

Oh mirabili effetti! Sentì tosto

cessar la doglia, o fosse la virtute

di que' magici detti, o, com'io credo,

la virtù de la bocca,

che sana ciò che tocca.

Io, che sino a quel punto altro non volsi

che 'l soave splendor degli occhi belli,

e le dolci parole, assai più dolci

che 'l mormorar d'un lento fiumicello

che rompa il corso fra minuti sassi,

o che 'l garrir de l'aura infra le frondi,

allor sentii nel cor novo desire

d'appressare a la sua questa mia bocca;

e fatto non so come astuto e scaltro

più de l'usato (guarda quanto Amore

aguzza l'intelletto!) mi sovvenne

d'un inganno gentile, co 'l qual io

recar potessi a fine il mio talento:

ché, fingendo ch'un'ape avesse morso

il mio labro di sotto, incominciai

a lamentarmi di cotal maniera,

che quella medicina, che la lingua

non richiedeva, il volto richiedeva.

La semplicetta Silvia,

pietosa del mio male,

s'offrì di dar aita

a la finta ferita, ahi lasso, e fece

più cupa e più mortale

la mia piaga verace,

quando le labra sue

giunse a le labra mie.

Né l'api d'alcun fiore

cogliondolce il mel ch'allora io colsi

da quelle fresche rose,

se ben gli ardenti baci,

che spingeva il desire a inumidirsi,

raffrenò la temenza

e la vergogna, o felli

più lenti e meno audaci.

Ma mentre al cor scendeva

quella dolcezza mista

d'un secreto veleno,

tal diletto n'avea

che, fingendo ch'ancor non mi passasse

il dolor di quel morso,

fei sì ch'ella più volte

vi replicò l'incanto.

Da indi in qua andò in guisa crescendo

il desire e l'affanno impaziente

che, non potendo più capir nel petto,

fu forza che scoppiasse; ed una volta

che in cerchio sedevam ninfe e pastori,

e facevamo alcuni nostri giuochi,

ché ciascun ne l'orecchio del vicino

mormorando diceva un suo secreto,

«Silvia,» le dissi «io per te ardo, e certo

morrò, se non m'aiti.» A quel parlare

chinò ella il bel volto, e fuor le venne

un improviso, insolito rossore

che diede segno di vergogna e d'ira;

né ebbi altra risposta che un silenzio,

un silenzio turbato e pien di dure

minaccie. Indi si tolse, e più non volle

vedermiudirmi. E già tre volte

ha il nudo mietitor tronche le spighe,

ed altretante il verno ha scossi i boschi

de le lor verdi chiome; ed ogni cosa

tentata ho per placarla, fuor che morte.

Mi resta sol che per placarla io mora;

e morrò volontier, pur ch'io sia certo

ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia:

so di tai due cose qual più brami.

Ben fora la pietà premio maggiore

a la mia fede, e maggior ricompensa

a la mia morte; ma bramar non deggio

cosa che turbi il bel lume sereno

agli occhi cari, e affanni quel bel petto.

[TIRSI] È possibil però che, s'ella un giorno

udisse tai parole, non t'amasse?

[AMINTA] Non so, né 'l credo; ma fugge i miei detti

come l'aspe l'incanto. [TIRSI] Or ti confida,

ch'a me il cuor di far ch'ella t'ascolti.

[AMINTA] O nulla impetrerai, o, se tu impetri

ch'io parli, io nulla impetrerò parlando.

[TIRSI] Perché disperi sì? [AMINTA] Giusta cagione

ho del mio disperar, che il saggio Mopso

mi predisse la mia cruda ventura,

Mopso ch'intende il parlar degli augelli

e la virtù de l'erbe e de le fonti.

[TIRSI] Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso

c'ha ne la lingua melate parole,

e ne le labra un amichevol ghigno,

e la fraude nel seno, ed il rasoio

tien sotto il manto? Or su, sta di bon core,

ché i sciaurati pronostichi infelici,

ch'ei vende a' mal accorti con quel grave

suo supercilio, non han mai effetto:

e per prova so io ciò che ti dico;

anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto

mi giova di sperar felice fine

a l'amor tuo. [AMINTA] Se sai cosa per prova,

che conforti mia speme, non tacerla.

[TIRSI] Dirolla volontieri. Allor che prima

mia sorte mi condusse in queste selve,

costui conobbi, e lo stimava io tale

qual tu lo stimi; in tanto un mi venne

e bisogno e talento d'irne dove

siede la gran cittade in ripa al fiume,

ed a costui ne feci motto; ed egli

così mi disse: «Andrai ne la gran terra,

ove gli astuti e scaltri cittadini

e i cortigian malvagi molte volte

prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni

di noi rustici incauti; però, figlio,

va su l'avviso, e non t'appressar troppo

ove sian drappi colorati e d'oro,

e pennacchi e divise e foggie nove;

ma sopra tutto guarda che mal fato

o giovenil vaghezza non ti meni

al magazzino de le ciancie: ah fuggi,

fuggi quell'incantato alloggiamento».

«Che luogo è questo?» io chiesi; ed ei soggiunse:

«Quivi abitan le maghe, che incantando

fan traveder e traudir ciascuno.

Ciò che diamante sembra ed oro fino,

è vetro e rame; e quelle arche d'argento,

che stimeresti piene di tesoro,

sporte son piene di vesciche bugge.

Quivi le mura son fatte con arte,

che parlano e rispondono ai parlanti;

né già rispondon la parola mozza,

com'Eco suole ne le nostre selve,

ma la replican tutta intiera intiera:

con giunta anco di quel ch'altri non disse.

I trespidi, le tavole e le panche,

le scranne, le lettiere, le cortine,

e gli arnesi di camera e di sala

han tutti lingua e voce: e gridan sempre.

Quivi le ciancie in forma di bambine

vanno trescando, e se un muto v'entrasse,

un muto ciancerebbe a suo dispetto.

Ma questo è 'l minor mal che ti potesse

incontrar: tu potresti indi restarne

converso in selce, in fera, in acqua, o in foco:

acqua di pianto, e foco di sospiri».

Così diss'egli; ed io n'andai con questo

fallace antiveder ne la cittade;

e, come volse il Ciel benigno, a caso

passai per dov'è 'l felice albergo.

Quindi uscian fuor voci canore e dolci

e di cigni e di ninfe e di sirene,

di sirene celesti; e n'uscian suoni

soavi e chiari; e tanto altro diletto,

ch'attonito godendo ed ammirando,

mi fermai buona pezza. Era su l'uscio,

quasi per guardia de le cose belle,

uom d'aspetto magnanimo e robusto,

di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi

s'egli sia miglior duce o cavaliero;

che, con fronte benigna insieme e grave,

con regal cortesia invitò dentro,

ei grande e 'n pregio, me negletto e basso.

Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi

celesti dee, ninfe leggiadre e belle,

novi Lini ed Orfei; ed oltre ancora,

senza vel, senza nube, e quale e quanta

a gl'immortali appar, vergine Aurora

sparger d'argento e d'or rugiade e raggi;

e fecondando illuminar d'intorno

vidi Febo, e le Muse, e fra le Muse

Elpin seder accolto; ed in quel punto

sentii me far di me stesso maggiore,

pien di nova virtù, pieno di nova

deitade, e cantai guerre ed eroi,

sdegnando pastoral ruvido carme.

E se ben poi (come altrui piacque) feci

ritorno a queste selve, io pur ritenni

parte di quello spirto; né già suona

la mia sampogna umil come soleva,

ma di voce più altera e più sonora

emula de le trombe, empie le selve.

Udimmi Mopso poscia, e con maligno

guardo mirando, affascinommi; ond'io

roco divenni, e poi gran tempo tacqui:

quando i pastor credean ch'io fossi stato

visto dal lupo, e 'l lupo era costui.

Questo t'ho detto, acciò che sappi quanto

il parlar di costui di fede è degno;

e déi bene sperar, sol perché ei vuole

che nulla speri. [AMINTA] Piacemi d'udire

quanto mi narri. A te dunque rimetto

la cura di mia vita. [TIRSI] Io n'avrò cura.

Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa.

[CORO] O bella età de l'oro,

non già perché di latte

sen' corse il fiume e stillò mele il bosco;

non perché i frutti loro

dier da l'aratro intatte

le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco;

non perché nuvol fosco

non spiegò allor suo velo,

ma in primavera eterna,

ch'ora s'accende e verna,

rise di luce e di sereno il cielo;

portò peregrino

o guerra o merce agli altrui lidi il pino;

ma sol perché quel vano

nome senza soggetto,

quell'idolo d'errori, idol d'inganno,

quel che dal volgo insano

onor poscia fu detto,

che di nostra natura 'l feo tiranno,

non mischiava il suo affanno

fra le liete dolcezze

de l'amoroso gregge;

né fu sua dura legge

nota a quell'alme in libertate avvezze,

ma legge aurea e felice

che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice».

Allor tra fiori e linfe

traen dolci carole

gli Amoretti senz'archi e senza faci;

sedean pastori e ninfe

meschiando a le parole

vezzi e susurri, ed ai susurri i baci

strettamente tenaci;

la verginella ignude

scopria sue fresche rose,

ch'or tien nel velo ascose,

e le poma del seno acerbe e crude;

e spesso in fonte o in lago

scherzar si vide con l'amata il vago.

Tu prima, Onor, velasti

la fonte dei diletti,

negando l'onde a l'amorosa sete;

tu a' begli occhi insegnasti

di starne in sé ristretti,

e tener lor bellezze altrui secrete;

tu raccogliesti in rete

le chiome a l'aura sparte;

tu i dolci atti lascivi

festi ritrosi e schivi;

ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte;

opra è tua sola, o Onore,

che furto sia quel che fu don d'Amore.

E son tuoi fatti egregi

le pene e i pianti nostri.

Ma tu, d'Amore e di Natura donno,

tu domator de' Regi,

che fai tra questi chiostri,

che la grandezza tua capir non ponno?

Vattene, e turba il sonno

agl'illustri e potenti:

noi qui, negletta e bassa

turba, senza te lassa

viver ne l'uso de l'antiche genti.

Amiam, ché non ha tregua

con gli anni umana vita, e si dilegua.

Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:

a noi sua breve luce

s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.

 

 




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