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Torquato Tasso
Aminta

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Scena seconda - Dafne, Tirsi

 

[DAFNE] Tirsi, com'io t'ho detto, io m'era accorta

ch'Aminta amava Silvia; e Dio sa quanti

buoni officii n'ho fatti, e son per farli

tanto più volontier, quant'or vi aggiungi

le tue preghiere; ma torrei più tosto

a domar un giuvenco, un orso, un tigre,

che a domar una semplice fanciulla:

fanciulla tanto sciocca quanto bella,

che non s'avveggia ancor come sian calde

l'armi di sua bellezza e come acute,

ma ridendo e piangendo uccida altrui,

e l'uccida e non sappia di ferire.

[TIRSI] Ma quale è così semplice fanciulla

che, uscita da le fascie, non apprenda

l'arte del parer bella e del piacere,

de l'uccider piacendo, e del sapere

qual arme fera, e qual dia morte, e quale

sani e ritorni in vita? [DAFNE] Chi è 'l mastro

di cotant'arte? [TIRSI] Tu fingi, e mi tenti:

quel che insegna agli augelli il canto e 'l volo,

a' pesci il nuoto ed a' montoni il cozzo,

al toro usar il corno, ed al pavone

spiegar la pompa de l'occhiute piume.

[DAFNE] Come ha nome 'l gran mastro? [TIRSI] Dafne ha nome.

[DAFNE] Lingua bugiarda! [TIRSI] E perché? tu non sei

atta a tener mille fanciulle a scola?

Benché, per dir il ver, non han bisogno

di maestro: maestra è la natura,

ma la madre e la balia anco v'han parte.

[DAFNE] In somma, tu sei goffo insieme e tristo.

Ora, per dirti il ver, non mi risolvo

se Silvia è semplicetta come pare

a le parole, a gli atti. Ier vidi un segno

che me ne mette in dubbio. Io la trovai

presso la cittade in quei gran prati

ove fra stagni giace un'isoletta,

sovra essa un lago limpido e tranquillo,

tutta pendente in atto che parea

vagheggiar se medesma, e 'nsieme insieme

chieder consiglio a l'acque in qual maniera

dispor dovesse in su la fronte i crini,

e sovra i crini il velo, e sovra 'l velo

i fior che tenea in grembo; e spesso spesso

or prendeva un lingustro, or una rosa,

e l'accostava al bel candido collo,

a le guancie vermiglie, e de' colori

fea paragone; e poi, sì come lieta

de la vittoria, lampeggiava un riso

che parea che dicesse: «Io pur vi vinco,

porto voi per ornamento mio,

ma porto voi sol per vergogna vostra,

perché si veggia quanto mi cedete».

Ma, mentre ella s'ornava e vagheggiava,

rivolse gli occhi a caso, e si fu accorta

ch'io di lei m'era accorta, e vergognando

rizzossi tosto, e fior lasciò cadere.

In tanto io più ridea del suo rossore,

ella più s'arrossia del riso mio.

Ma, perché accolta una parte de' crini

e l'altra aveva sparsa, una o due volte

con gli occhi al fonte consiglier ricorse,

e si mirò quasi di furto, pure

temendo ch'io nel suo guatar guatassi;

ed incolta si vide, e si compiacque

perché bella si vide ancor che incolta.

Io me n'avvidi, e tacqui. [TIRSI] Tu mi narri

quel ch'io credeva a punto. Or non m'apposi?

[DAFNE] Ben t'apponesti; ma pur odo dire

che non erano pria le pastorelle,

né le ninfeaccorte; né io tale

fui in mia fanciullezza. Il mondo invecchia,

e invecchiando intristisce. [TIRSI] Forse allora

non usavanspesso i cittadini

ne le selve e ne i campi, né sì spesso

le nostre forosette aveano in uso

d'andare a la cittade. Or son mischiate

schiatte e costumi. Ma lasciam da parte

questi discorsi; or non farai ch'un giorno

Silvia contenta sia che le ragioni

Aminta, o solo, o almeno in tua presenza?

[DAFNE] Non so. Silvia è ritrosa fuor di modo.

[TIRSI] E costui rispettoso è fuor di modo.

[DAFNE] È spacciato un amante rispettoso:

consiglial pur che faccia altro mestiero,

poich'egli è tal. Chi imparar vuol d'amare,

disimpari il rispetto: osi, domandi,

solleciti, importuni, al fine involi;

e se questo non basta, anco rapisca.

Or non sai tu com'è fatta la donna?

Fugge, e fuggendo vuol che altri la giunga;

niega, e negando vuol ch'altri si toglia;

pugna, e pugnando vuol ch'altri la vinca.

Ve', Tirsi, io parlo teco in confidenza:

non ridir ch'io ciò dica. E sovra tutto

non porlo in rime. Tu sai s'io saprei

renderti poi per versi altro che versi.

[TIRSI] Non hai cagion di sospettar ch'io dica

cosa giamai che sia contra tuo grado.

Ma ti prego, o mia Dafne, per la dolce

memoria di tua fresca giovanezza,

che tu m'aiti ad aitar Aminta

miserel, che si muore. [DAFNE] Oh che gentile

scongiuro ha ritrovato questo sciocco

di rammentarmi la mia giovanezza,

il ben passato e la presente noia!

Ma che vuoi tu ch'io faccia? [TIRSI] A te non manca

saper, né consiglio. Basta sol che

ti disponga a voler. [DAFNE] Or su, dirotti:

debbiamo in breve andare Silvia ed io

al fonte che s'appella di Diana,

dove a le dolci acque fa dolce ombra

quel platano ch'invita al fresco seggio

le ninfe cacciatrici. Ivi so certo

che tufferà le belle membra ignude.

[TIRSI] Ma che però? [DAFNE] Ma che però? Da poco

intenditor! s'hai senno, tanto basti.

[TIRSI] Intendo; ma non so s'egli avrà tanto

d'ardir. [DAFNE] S'ei non l'avrà, stiasi, ed aspetti

ch'altri lui cerchi. [TIRSI] Egli è ben tal che 'l merta.

[DAFNE] Ma non vogliamo noi parlar alquanto

di te medesmo? Or su, Tirsi, non vuoi

tu inamorarti? sei giovane ancora,

passi di quattr'anni il quinto lustro,

se ben sovviemmi quando eri fanciullo;

vuoi viver neghittoso e senza gioia?

ché sol amando uom sa che sia diletto.

[TIRSI] I diletti di Venere non lascia

l'uom che schiva l'amor, ma coglie e gusta

le dolcezze d'amor senza l'amaro.

[DAFNE] Insipido è quel dolce che condito

non è di qualche amaro, e tosto sazia.

[TIRSI] È meglio saziarsi, ch'esser sempre

famelico nel cibo e dopo 'l cibo.

[DAFNE] Ma non, se 'l cibo si possede e piace,

e gustato a gustar sempre n'invoglia.

[TIRSI] Ma chi possede sì quel che gli piace

che l'abbia sempre presso a la sua fame?

[DAFNE] Ma chi ritrova il ben, s'egli no 'l cerca?

[TIRSI] Periglioso è cercar quel che trovato

trastulla sì, ma più tormenta assai

non ritrovato. Allor vedrassi amante

Tirsi mai più, ch'Amor nel seggio suo

non avrà più né piantisospiri.

A bastanza ho già pianto e sospirato.

Faccia altri la sua parte. [DAFNE] Ma non hai

già goduto a bastanza. [TIRSI] Né desio

goder, se così caro egli si compra.

[DAFNE] Sarà forza l'amar, se non fia voglia.

[TIRSI] Ma non si può sforzar chi sta lontano.

[DAFNE] Ma chi lung'è d'Amor? [TIRSI] Chi teme e fugge.

[DAFNE] E che giova fuggir da lui, c'ha l'ali?

[TIRSI] Amor nascente ha corte l'ali: a pena

può su tenerle, e non le spiega a volo.

[DAFNE] Pur non s'accorge l'uom quand'egli nasce;

e, quando uom se n'accorge, è grande, e vola.

[TIRSI] Non, s'altra volta nascer non l'ha visto.

[DAFNE] Vedrem, Tirsi, s'avrai la fuga e gli occhi

come tu dici. Io ti protesto, poi

che fai del corridore e del cerviero,

che, quando ti vedrò chieder aita,

non moverei, per aiutarti, un passo,

un dito, un detto, una palpebra sola.

[TIRSI] Crudel, daratti il cor vedermi morto?

Se vuoi pur ch'ami, ama tu me: facciamo

l'amor d'accordo. [DAFNE] Tu mi scherni, e forse

non merti amante così fatta: ahi quanti

n'inganna il viso colorito e liscio!

[TIRSI] Non burlo io, no; ma tu con tal protesto

non accetti il mio amor, pur come è l'uso

di tutte quante; ma, se non mi vuoi,

viverò senza amor. [DAFNE] Contento vivi

più che mai fossi, o Tirsi, in ozio vivi:

ché ne l'ozio l'amor sempre germoglia.

[TIRSI] O Dafne, a me quest'ozii ha fatto Dio:

colui che Dio qui può stimarsi; a cui

si pascon gli ampi armenti e l'ampie greggie

da l'uno a l'altro mare, e per li lieti

colti di fecondissime campagne,

e per gli alpestri dossi d'Apennino.

Egli mi disse, allor che suo mi fece:

«Tirsi, altri scacci i lupi e i ladri, e guardi

i miei murati ovili; altri comparta

le pene e i premii a' miei ministri; ed altri

pasca e curi le greggi; altri conservi

le lane e 'l latte, ed altri le dispensi:

tu canta, or che se' 'n ozio». Ond'è ben giusto

che non gli scherzi di terreno amore,

ma canti gli avi del mio vivo e vero

non so s'io lui mi chiami Apollo o Giove,

ché ne l'opre e nel volto ambi somiglia,

gli avi più degni di Saturno o Celo:

agreste Musa a regal merto; e pure,

chiara o roca che suoni, ei non la sprezza.

Non canto lui, però che lui non posso

degnamente onorar, se non tacendo

e riverendo; ma non fian giamai

gli altari suoi senza i miei fiori, e senza

soave fumo d'odorati incensi:

ed allor questa semplice e devota

religion mi si torrà dal core,

che d'aria pasceransi in aria i cervi,

e che, mutando i fiumi e letto e corso,

il Perso bea la Sona, il Gallo il Tigre.

[DAFNE] Oh, tu vai alto; or su, discendi un poco

al proposito nostro. [TIRSI] Il punto è questo:

che tu, in andando al fonte con colei,

cerchi d'intenerirla: ed io fra tanto

procurerò ch'Aminta ne venga.

Né la mia forse men difficil cura

sarà di questa tua. Or vanne. [DAFNE] Io vado,

ma il proposito nostro altro intendeva.

[TIRSI] Se ben ravviso di lontan la faccia,

Aminta è quel che di spunta. È desso.

 

 

 




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