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Torquato Tasso
Aminta

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Scena seconda - Nuncio, Coro, Silvia, Dafne

 

[NUNCIO] Io ho sì pieno il petto di pietate

e sì pieno d'orror, che non rimiro

odo alcuna cosa, ond'io mi volga,

la qual non mi spaventi e non m'affanni.

[CORO] Or ch'apporta costui,

ch'è sì turbato in vista ed in favella?

[NUNCIO] Porto l'aspra novella

de la morte d'Aminta. [SILVIA] Ohimè, che dice?

[NUNCIO] Il più nobil pastor di queste selve,

che fu così gentil, così leggiadro,

così caro a le ninfe ed a le Muse,

ed è morto fanciullo, ahi, di che morte!

[CORO] Contane, prego, il tutto, acciò che teco

pianger possiam la sua sciagura e nostra.

[SILVIA] Ohimè, ch'io non ardisco

appressarmi ad udire

quel ch'è pur forza udire. Empio mio core,

mio duro alpestre core,

di che, di che paventi?

Vattene incontra pure

a quei coltei pungenti

che costui porta ne la lingua, e quivi

mostra la tua fierezza.

Pastore, io vengo a parte

di quel dolor che tu prometti altrui,

ché a me ben si conviene

più che forse non pensi; ed io 'l ricevo

come dovuta cosa. Or tu di lui

non mi sii dunque scarso.

[NUNCIO] Ninfa, io ti credo bene,

ch'io sentii quel meschino in su la morte

finir la vita sua

co 'l chiamar il tuo nome.

[DAFNE] Ora comincia omai

questa dolente istoria.

[NUNCIO] Io era a mezzo 'l colle, ove avea tese

certe mie reti, quanto assai vicino

vidi passar Aminta, in volto e in atti

troppo mutato da quel ch'ei soleva,

troppo turbato e scuro. Io corsi, e corsi

tanto che 'l giunsi e lo fermai; ed egli

mi disse: «Ergasto, io vo' che tu mi faccia

un gran piacere: quest'è, che tu ne venga

meco per testimonio d'un mio fatto;

ma pria voglio da te che tu mi leghi

di stretto giuramento la tua fede

di startene in disparte e non por mano,

per impedirmi in quel che son per fare».

Io (chi pensato avria casostrano,

né sì pazzo furor?), com' egli volse,

feci scongiuri orribili, chiamando

e Pane e Pale e Priapo e Pomona,

ed Ecate notturna. Indi si mosse,

e mi condusse ovscosceso il colle,

e giù per balzi e per dirupi incolti

strada non già, ché non v'è strada alcuna,

ma cala un precipizio in una valle.

Qui ci fermammo. Io, rimirando a basso,

tutto sentii raccapricciarmi, e 'ndietro

tosto mi trassi; ed egli un cotal poco

parve ridesse, e serenossi in viso;

onde quell'atto più rassicurommi.

Indi parlommi sì: «Fa che tu conti

a le ninfe e ai pastor ciò che vedrai».

Poi disse, in giù guardando:

«Se presti a mio volere

così aver io potessi

la gola e i denti de gli avidi lupi,

com'ho questi dirupi,

sol vorrei far la morte

che fece la mia vita:

vorrei che queste mie membra meschine

fosser lacerate,

ohimè, come già foro

quelle sue delicate.

Poi che non posso, e 'l cielo

dinega al mio desire

gli animali voraci,

che ben verriano a tempo, io prender voglio

altra strada al morire:

prenderò quella via

che, se non la devuta,

almen fia la più breve.

Silvia, io ti seguo, io vengo

a farti compagnia,

se non la sdegnerai;

e morirei contento,

s'io fossi certo almeno

che 'l mio venirti dietro

turbar non ti dovesse,

e che fosse finita

l'ira tua con la vita.

Silvia, io ti seguo, io vengo». Così detto,

precipitossi d'alto

co 'l capo in giuso; ed io restai di ghiaccio.

[DAFNE] Misero Aminta! [SILVIA] Ohimè!

[CORO] Perché non l'impedisti?

Forse ti fu ritegno a ritenerlo

il fatto giuramento?

[NUNCIO] Questo no, ché, sprezzando i giuramenti,

vani forse in tal caso,

quand'io m'accorsi del suo pazzo ed empio

proponimento, con la man vi corsi,

e, come volse la sua dura sorte,

lo presi in questa fascia di zendado

che lo cingeva; la qual, non potendo

l'impeto e 'l peso sostener del corpo,

che s'era tutto abandonato, in mano

spezzata mi rimase. [CORO] E che divenne

de l'infelice corpo? [NUNCIO] Io no 'l so dire:

ch'erapien d'orrore e di pietate,

che non mi diede il cor di rimirarvi,

per non vederlo in pezzi. [CORO] O strano caso!

[SILVIA] Ohimè, ben son di sasso,

poi che questa novella non m'uccide.

Ahi, se la falsa morte

di chi tanto l'odiava

a lui tolse la vita,

ben sarebbe ragione

che la verace morte

di chi tanto m'amava

togliesse a me la vita;

e vo' che la mi tolga,

se non potrò co 'l duol, almen co 'l ferro,

o pur con questa fascia,

che non senza cagione

non seguì le ruine

del suo dolce signore,

ma restò sol per fare in me vendetta

de l'empio mio rigore

e del suo amaro fine.

Cinto infelice, cinto

di signor più infelice,

non ti spiaccia restare

in sì odioso albergo,

ché tu vi resti sol per instrumento

di vendetta e di pena.

Dovea certo, io dovea

esser compagna al mondo

de l'infelice Aminta.

Poscia ch'allor non volsi,

sarò per opra tua

sua compagna a l'inferno.

[CORO] Consòlati, meschina,

che questo è di fortuna e non tua colpa.

[SILVIA] Pastor, di chi piangete?

Se piangete il mio affanno,

io non merto pietate,

ché non la seppi usare;

se piangete il morire

del misero innocente,

questo è picciolo segno

a sì alta cagione. E tu rasciuga,

Dafne, queste tue lagrime, per Dio.

Se cagion ne son io,

ben ti voglio pregare,

non per pietà di me, ma per pietate

di chi degno ne fue,

che m'aiuti a cercare

l'infelici sue membra e a sepelirle.

Questo sol mi ritiene,

ch'or ora non m'uccida:

pagar vo' questo ufficio,

poi ch'altro non m'avanza,

a l'amor ch'ei portommi;

e se ben quest'empia

mano contaminare

potesse la pietà de l'opra, pure

so che gli sarà cara

l'opra di questa mano;

ché so certo ch'ei m'ama,

come mostrò morendo.

[DAFNE] Son contenta aiutarti in questo ufficio;

ma tu già non pensare

d'aver poscia a morire.

[SILVIA] Sin qui vissi a me stessa,

a la mia feritate: or, quel ch'avanza,

viver voglio ad Aminta;

e, se non posso a lui,

viverò al freddo suo

cadavero infelice.

Tanto, e non più, mi lice

restar nel mondo, e poi finir a un punto

e l'essequie e la vita.

Pastor, ma quale strada

ci conduce a la valle, ove il dirupo

va a terminare? [NUNCIO] Questa vi conduce;

e quinci poco spazio ella è lontana.

[DAFNE] Andiam, che verrò teco e guiderotti;

ché ben rammento il luogo. [SILVIA] A Dio, pastori;

piagge, a Dio; a Dio, selve; e fiumi, a Dio.

[NUNCIO] Costei parla di modo, che dimostra

d'esser disposta a l'ultima partita.

[CORO] Ciò che morte rallenta, Amor, restringi,

amico tu di pace, ella di guerra,

e del suo trionfar trionfi e regni;

e mentre due bell'alme annodi e cingi,

così rendi sembiante al ciel la terra,

che d'abitarla tu non fuggi o sdegni.

Non sono ire su: gli umani ingegni

tu placidi ne rendi, e l'odio interno

sgombri, signor, da' mansueti cori,

sgombri mille furori;

e quasi fai col tuo valor superno

de le cose mortali un giro eterno.

 

 




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