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Torquato Tasso Aminta IntraText CT - Lettura del testo |
[AMINTA] Ho visto al pianto mio
risponder per pietate i sassi e l'onde,
e sospirar le fronde
ho visto al pianto mio;
ma non ho visto mai,
né spero di vedere,
compassion ne la crudele e bella,
che non so s'io mi chiami o donna o fera:
ma niega d'esser donna,
poiché nega pietate
a chi non la negaro
le cose inanimate.
[TIRSI] Pasce l'agna l'erbette, il lupo l'agne,
ma il crudo Amor di lagrime si pasce,
né se ne mostra mai satollo. [AMINTA] Ahi, lasso,
ch'Amor satollo è del mio pianto omai,
e solo ha sete del mio sangue; e tosto
voglio ch'egli e quest'empia il sangue mio
bevan con gli occhi. [TIRSI] Ahi, Aminta, ahi, Aminta,
che parli? o che vaneggi? Or ti conforta,
ch'un'altra troverai, se ti disprezza
questa crudele. [AMINTA] Ohimè, come poss'io
altri trovar, se me trovar non posso?
Se perduto ho me stesso, quale acquisto
farò mai che mi piaccia? [TIRSI] O miserello,
non disperar, ch'acquisterai costei.
La lunga etate insegna a l'uom di porre
freno ai leoni ed a le tigri ircane.
[AMINTA] Ma il misero non puote a la sua morte
indugio sostener di lungo tempo.
[TIRSI] Sarà corto l'indugio: in breve spazio
s'adira e in breve spazio anco si placa
femina, cosa mobil per natura
più che fraschetta al vento e più che cima
di pieghevole spica. Ma, ti prego,
fa ch'io sappia più a dentro de la tua
dura condizione e de l'amore;
ché, se ben confessato m'hai più volte
d'amare, mi tacesti però dove
fosse posto l'amore. Ed è ben degna
la fedele amicizia ed il commune
studio de le Muse ch'a me scuopra
ciò ch'agli altri si cela. [AMINTA] Io son contento,
Tirsi, a te dir ciò che le selve e i monti
e i fiumi sanno, e gli uomini non sanno.
Ch'io sono omai sì prossimo a la morte,
ch'è ben ragion ch'io lasci chi ridica
la cagion del morire, e che l'incida
ne la scorza d'un faggio, presso il luogo
dove sarà sepolto il corpo essangue;
sì che talor passandovi quell'empia
si goda di calcar l'ossa infelici
co 'l piè superbo, e tra sé dica: «È questo
pur mio trionfo»; e goda di vedere
che nota sia la sua vittoria a tutti
li pastori paesani e pellegrini
che quivi il caso guidi; e forse (ahi, spero
troppo alte cose) un giorno esser potrebbe
ch'ella, commossa da tarda pietate,
piangesse morto chi già vivo uccise,
dicendo: «Oh pur qui fosse, e fosse mio!»
Or odi. [TIRSI] Segui pur, ch'io ben t'ascolto,
e forse a miglior fin che tu non pensi.
[AMINTA] Essendo io fanciulletto, sì che a pena
giunger potea con la man pargoletta
a côrre i frutti dai piegati rami
degli arboscelli, intrinseco divenni
de la più vaga e cara verginella
che mai spiegasse al vento chioma d'oro.
La figliuola conosci di Cidippe
e di Montan, ricchissimo d'armenti,
Silvia, onor de le selve, ardor de l'alme?
Di questa parlo, ahi lasso; vissi a questa
così unito alcun tempo, che fra due
tortorelle più fida compagnia
non sarà mai, né fue.
Congiunti eran gli alberghi,
ma più congiunti i cori;
conforme era l'etate,
ma 'l pensier più conforme;
seco tendeva insidie con le reti
ai pesci ed agli augelli, e seguitava
i cervi seco e le veloci damme:
e 'l diletto e la preda era commune.
Ma, mentre io fea rapina d'animali,
fui non so come a me stesso rapito.
A poco a poco nacque nel mio petto,
non so da qual radice,
com'erba suol che per se stessa germini,
un incognito affetto,
che mi fea desiare
d'esser sempre presente
a la mia bella Silvia;
e bevea da' suoi lumi
un'estranea dolcezza,
che lasciava nel fine
un non so che d'amaro;
sospirava sovente, e non sapeva
la cagion de' sospiri.
Così fui prima amante ch'intendessi
che cosa fosse Amore.
Ben me n'accorsi al fin: ed in qual modo,
ora m'ascolta, e nota. [TIRSI] È da notare.
[AMINTA] A l'ombra d'un bel faggio Silvia e Filli
sedean un giorno, ed io con loro insieme,
quando un'ape ingegnosa, che, cogliendo
sen' giva il mel per que' prati fioriti,
a le guancie di Fillide volando,
a le guancie vermiglie come rosa,
le morse e le rimorse avidamente:
ch'a la similitudine ingannata
forse un fior le credette. Allora Filli
cominciò lamentarsi, impaziente
de l'acuta puntura:
ma la mia bella Silvia disse: «Taci,
taci, non ti lagnar, Filli, perch'io
con parole d'incanti leverotti
il dolor de la picciola ferita.
A me insegnò già questo secreto
la saggia Aresia, e n'ebbe per mercede
quel mio corno d'avolio ornato d'oro».
Così dicendo, avvicinò le labra
de la sua bella e dolcissima bocca
a la guancia rimorsa, e con soave
susurro mormorò non so che versi.
Oh mirabili effetti! Sentì tosto
cessar la doglia, o fosse la virtute
di que' magici detti, o, com'io credo,
la virtù de la bocca,
che sana ciò che tocca.
Io, che sino a quel punto altro non volsi
che 'l soave splendor degli occhi belli,
e le dolci parole, assai più dolci
che 'l mormorar d'un lento fiumicello
che rompa il corso fra minuti sassi,
o che 'l garrir de l'aura infra le frondi,
allor sentii nel cor novo desire
d'appressare a la sua questa mia bocca;
e fatto non so come astuto e scaltro
più de l'usato (guarda quanto Amore
aguzza l'intelletto!) mi sovvenne
d'un inganno gentile, co 'l qual io
recar potessi a fine il mio talento:
ché, fingendo ch'un'ape avesse morso
il mio labro di sotto, incominciai
a lamentarmi di cotal maniera,
che quella medicina, che la lingua
non richiedeva, il volto richiedeva.
La semplicetta Silvia,
pietosa del mio male,
s'offrì di dar aita
a la finta ferita, ahi lasso, e fece
più cupa e più mortale
la mia piaga verace,
quando le labra sue
giunse a le labra mie.
Né l'api d'alcun fiore
coglion sì dolce il mel ch'allora io colsi
da quelle fresche rose,
se ben gli ardenti baci,
che spingeva il desire a inumidirsi,
raffrenò la temenza
e la vergogna, o felli
più lenti e meno audaci.
Ma mentre al cor scendeva
quella dolcezza mista
d'un secreto veleno,
tal diletto n'avea
che, fingendo ch'ancor non mi passasse
il dolor di quel morso,
fei sì ch'ella più volte
vi replicò l'incanto.
Da indi in qua andò in guisa crescendo
il desire e l'affanno impaziente
che, non potendo più capir nel petto,
fu forza che scoppiasse; ed una volta
che in cerchio sedevam ninfe e pastori,
e facevamo alcuni nostri giuochi,
ché ciascun ne l'orecchio del vicino
mormorando diceva un suo secreto,
«Silvia,» le dissi «io per te ardo, e certo
morrò, se non m'aiti.» A quel parlare
chinò ella il bel volto, e fuor le venne
un improviso, insolito rossore
che diede segno di vergogna e d'ira;
né ebbi altra risposta che un silenzio,
un silenzio turbato e pien di dure
minaccie. Indi si tolse, e più non volle
né vedermi né udirmi. E già tre volte
ha il nudo mietitor tronche le spighe,
ed altretante il verno ha scossi i boschi
de le lor verdi chiome; ed ogni cosa
tentata ho per placarla, fuor che morte.
Mi resta sol che per placarla io mora;
e morrò volontier, pur ch'io sia certo
ch'ella o se ne compiaccia, o se ne doglia:
né so di tai due cose qual più brami.
Ben fora la pietà premio maggiore
a la mia fede, e maggior ricompensa
a la mia morte; ma bramar non deggio
cosa che turbi il bel lume sereno
agli occhi cari, e affanni quel bel petto.
[TIRSI] È possibil però che, s'ella un giorno
udisse tai parole, non t'amasse?
[AMINTA] Non so, né 'l credo; ma fugge i miei detti
come l'aspe l'incanto. [TIRSI] Or ti confida,
ch'a me dà il cuor di far ch'ella t'ascolti.
[AMINTA] O nulla impetrerai, o, se tu impetri
ch'io parli, io nulla impetrerò parlando.
[TIRSI] Perché disperi sì? [AMINTA] Giusta cagione
ho del mio disperar, che il saggio Mopso
mi predisse la mia cruda ventura,
Mopso ch'intende il parlar degli augelli
e la virtù de l'erbe e de le fonti.
[TIRSI] Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso
c'ha ne la lingua melate parole,
e ne le labra un amichevol ghigno,
e la fraude nel seno, ed il rasoio
tien sotto il manto? Or su, sta di bon core,
ché i sciaurati pronostichi infelici,
ch'ei vende a' mal accorti con quel grave
suo supercilio, non han mai effetto:
e per prova so io ciò che ti dico;
anzi da questo sol ch'ei t'ha predetto
mi giova di sperar felice fine
a l'amor tuo. [AMINTA] Se sai cosa per prova,
che conforti mia speme, non tacerla.
[TIRSI] Dirolla volontieri. Allor che prima
mia sorte mi condusse in queste selve,
costui conobbi, e lo stimava io tale
qual tu lo stimi; in tanto un dì mi venne
e bisogno e talento d'irne dove
siede la gran cittade in ripa al fiume,
ed a costui ne feci motto; ed egli
così mi disse: «Andrai ne la gran terra,
ove gli astuti e scaltri cittadini
e i cortigian malvagi molte volte
prendonsi a gabbo, e fanno brutti scherni
di noi rustici incauti; però, figlio,
va su l'avviso, e non t'appressar troppo
ove sian drappi colorati e d'oro,
e pennacchi e divise e foggie nove;
ma sopra tutto guarda che mal fato
o giovenil vaghezza non ti meni
al magazzino de le ciancie: ah fuggi,
fuggi quell'incantato alloggiamento».
«Che luogo è questo?» io chiesi; ed ei soggiunse:
«Quivi abitan le maghe, che incantando
fan traveder e traudir ciascuno.
Ciò che diamante sembra ed oro fino,
è vetro e rame; e quelle arche d'argento,
che stimeresti piene di tesoro,
sporte son piene di vesciche bugge.
Quivi le mura son fatte con arte,
che parlano e rispondono ai parlanti;
né già rispondon la parola mozza,
com'Eco suole ne le nostre selve,
ma la replican tutta intiera intiera:
con giunta anco di quel ch'altri non disse.
I trespidi, le tavole e le panche,
le scranne, le lettiere, le cortine,
e gli arnesi di camera e di sala
han tutti lingua e voce: e gridan sempre.
Quivi le ciancie in forma di bambine
vanno trescando, e se un muto v'entrasse,
un muto ciancerebbe a suo dispetto.
Ma questo è 'l minor mal che ti potesse
incontrar: tu potresti indi restarne
converso in selce, in fera, in acqua, o in foco:
acqua di pianto, e foco di sospiri».
Così diss'egli; ed io n'andai con questo
fallace antiveder ne la cittade;
e, come volse il Ciel benigno, a caso
passai per là dov'è 'l felice albergo.
Quindi uscian fuor voci canore e dolci
e di cigni e di ninfe e di sirene,
di sirene celesti; e n'uscian suoni
soavi e chiari; e tanto altro diletto,
ch'attonito godendo ed ammirando,
mi fermai buona pezza. Era su l'uscio,
quasi per guardia de le cose belle,
uom d'aspetto magnanimo e robusto,
di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi
s'egli sia miglior duce o cavaliero;
che, con fronte benigna insieme e grave,
con regal cortesia invitò dentro,
ei grande e 'n pregio, me negletto e basso.
Oh che sentii? che vidi allora? I' vidi
celesti dee, ninfe leggiadre e belle,
novi Lini ed Orfei; ed oltre ancora,
senza vel, senza nube, e quale e quanta
a gl'immortali appar, vergine Aurora
sparger d'argento e d'or rugiade e raggi;
e fecondando illuminar d'intorno
vidi Febo, e le Muse, e fra le Muse
Elpin seder accolto; ed in quel punto
sentii me far di me stesso maggiore,
pien di nova virtù, pieno di nova
deitade, e cantai guerre ed eroi,
sdegnando pastoral ruvido carme.
E se ben poi (come altrui piacque) feci
ritorno a queste selve, io pur ritenni
parte di quello spirto; né già suona
la mia sampogna umil come soleva,
ma di voce più altera e più sonora
emula de le trombe, empie le selve.
Udimmi Mopso poscia, e con maligno
guardo mirando, affascinommi; ond'io
roco divenni, e poi gran tempo tacqui:
quando i pastor credean ch'io fossi stato
visto dal lupo, e 'l lupo era costui.
Questo t'ho detto, acciò che sappi quanto
il parlar di costui di fede è degno;
e déi bene sperar, sol perché ei vuole
che nulla speri. [AMINTA] Piacemi d'udire
quanto mi narri. A te dunque rimetto
la cura di mia vita. [TIRSI] Io n'avrò cura.
Tu fra mezz'ora qui trovar ti lassa.
[CORO] O bella età de l'oro,
non già perché di latte
sen' corse il fiume e stillò mele il bosco;
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre, e gli angui errar senz'ira o tosco;
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna,
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce agli altrui lidi il pino;
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che dal volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura 'l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quell'alme in libertate avvezze,
ma legge aurea e felice
che natura scolpì: «S'ei piace, ei lice».
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch'or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago.
Tu prima, Onor, velasti
la fonte dei diletti,
negando l'onde a l'amorosa sete;
tu a' begli occhi insegnasti
di starne in sé ristretti,
e tener lor bellezze altrui secrete;
tu raccogliesti in rete
le chiome a l'aura sparte;
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi;
ai detti il fren ponesti, ai passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d'Amore.
E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno,
tu domator de' Regi,
che fai tra questi chiostri,
che la grandezza tua capir non ponno?
Vattene, e turba il sonno
agl'illustri e potenti:
noi qui, negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.
Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita, e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce.