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Ugo Foscolo
Sesto tomo dell'io

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I

         Il libro che sta fra le mani del candido lettore è il sesto tomo dell’IO, opera annunziata nel paragrafo precedente, che n’è il proemio universale.
         Mando innanzi il sesto, perché gli antecedenti volumi stanno ancora nel mio calamaio, e i futuri nel non leggibile scartafaccio del fato.
         Comprende questo tomo il mio anno ventesimo terzo, dai 4 maggio del 1799 sino a’4 maggio del 1800. Unito che sia al corpo dell’opera, lascerà il frontispizio che porta.
         Né si sospetti ch’io stampi un tomo alla volta per tastare il giudizio del pubblico. Con pace della critica e del disprezzo, proseguirò sempre a scrivere ed a stampare.
         Ma perché scrivi? A ciò ho risposto nel proemio inseritovi ad hoc. Che se poi non avete voluto né saputo valutare le mie ragioni, eccomi presto a darvi la risposta che di pieno iure vi si spetta. Poiché lasciate suonare il piffero a chi, volendo ingannare la sua noia, disturba i vicini, non v’adirate s’io, che non so suonare alcuno strumento, tento d’ingannare, scrivendo, i miei giorni perseguitati ed afflitti!
         E perché stampi?
         E perché compri? D’altronde si può comprare e non leggere. E qui avrei voluto chiamare in testimonio le biblioteche de’ frati e de’ vescovi; ma, poiché sono state saccheggiate dagli agenti nazionali, mi trovo forzato a far citare quelle de’ commissari, dei finanzieri, dei generali e dei nobili… e di qualche letterato. Vuoi più? Tutta questa rispettabile ciurma potrà persuadervi ab experto che si può comprare, leggere e non intendere.
         Fuor di scherzo. Vedimi ginocchione per confessarmi a’ tuoi piedi, o tollerante conoscitore dell’uomo.
         Il proponimento di mostrarmi come la madre natura e la fortuna mi han fatto, fu un po’ d’ambizione. Lo so… ma… ti giuro ch’io non sono stato mai ambizioso. Ho sentito… lo dico arrossendo… ho sentito e sento (lascia prima ch’io mi copra con le mani la faccia) una febbre di gloria che m’ubbriaca perpetuamente la testa. Nella mia adolescenza le ho sacrificato la quiete della casa paterna e la certezza del pranzo giornaliero. I miei piaceri, i miei vizi, le mie passioni, il mio onore e perfino le mie speranzeOra non ho altro… sono, quand’ella il voglia, sue vittime.
         È vero ch’io spoglio talvolta questo fantasma della porpora e della tromba, e allora vedo in lui uno scheletro che traballa sulle ossa ammucchiate de’ cimitericasca, si dissolve e si confonde fra le altre reliquie della morte. Ma poi? torna a lusingarmi con la sua voce, che passa tra il fremito delle tarde generazioni e rompe co’ suoi raggi che a me sembrano eterni la caligine de’ secoli remoti. Tutte le mie potenze e i bisogni stessi della vita non parlano allora in me che con un rispettoso mormorio. Il solo pensiero che il mio nome sarebbe sepolto col mio cadavere mi distolse due volte dal mio vecchio proponimento di ingannare la fortuna, di liberarmi dalla noia del mondo e di contentare la umana malignità, rendendo questa misera vita alla terra. L’ambizioso ha l’anima gonfia, non elevata. Non ho mai brigato il fumo della letteratura, né i ricamati vestimenti de’ nostri magistrati. E, più che l’amore della virtù, il timore dell’avvilimento mi ha rattenuto sovente da quelle azioni che la società chiama delitti. Ma s’io… non forza politica umana, non prepotenza divina mi faranno rappresentare su questo mortale teatro la parte del piccolo briccone.
         Da questo che ho detto avrai desunto, spero, quello che non posso dire. Bensì… Lo dirò? Sogno talvolta di nuotare alla gloria per un mare di sangue. Or tu puoi desumere ciò ch’io non posso dire.
         Un pari accesso avea, non ha guari, abbattute le mie facoltà. Io aveva esiliato dal mio ingegno le vergini muse e dal mio cuore il dolce spirito dell’amore. Addio patria, addio madre, addio cara e soave corrispondenza di pacifici affetti. Pareami di consacrare alla libertà un pugnale fumante ancora nelle viscere de’ miei congiunti, e di piantar la bandiera della vittoria sopra un monte di cadaveri. La mia fantasia scriveva frattanto il mio nome sulle volte dei cieli. Ma io mi sentiva rodere a un tempo dalla fame di gloria, l’ulcera sorda del supremo potere. Se non che la disperazione di conseguirlo prostrò l’anima mia, la quale giaceva, aspettando il soffio distruttore della morte.
         Una notte, nell’agonia dell’infermità, mi sono sentito asciugare il sudore del volto. Schiudendo gli occhi languenti, vidi al debile raggio di una lanterna un vecchio scarno e coperto d’un saio sdrucito; il capo calvo, la barba canuta e divisa in due liste. – Non conosci me più? – mi disse, sedendo presso al mio capezzale…………  ……..gno. Mi stringeva anzi affettuosamente: quindi mi stese la mano e mi confortava……. il mio sonno. – Non dormo, no – diss’io, sospirando profondamente e volgendomi dal suo lato, – non dormoaspetto qui il sonno eterno! Ma tu che cerchi da me? –
         Ed egli: – O mio figliuolo! Tu hai negletto la fortuna, perduto le scarse delizie della vita, consumata la gioventù, e, invece di pentirti, ti vai divorando quel poco d’ingegno che ti resta e che può solo acquistarti la gloria, il di cui cieco desiderio ti ha ridotto a questo deplorabile stato! – Il mio volto si rasserenava al suo dire, ma quest’ultime parole, destandomi pietà di me stesso, mi trassero una lagrima: ei l’asciugò col lembo del suo saio.
         Avvedutosi ch’io mi forzava d’alzarmi sulle braccia rizzassi per aiutarmi: s’assise poscia, e, sostenendomi il capo con la palma della sua mano, proseguì: – Credimi: la fama degli uomini grandi spetta, per lo più, tre quarti alla sorte e un quarto ai loro delitti. Il vulgo giudica, più che dall’intento, dalla fortuna; la utilità fa passare in diritto la sceleraggine, spesso il terrore adula il potere e l’interesse magnifica sempre l’opulenza. Vedi le lodi che si sono date alle stragi? Ma se pure ti senti bastevolmente scelerato per aspirare all’eroismo, credi che la fortuna arriderà sempre alle tue imprese? Se tu cadessi fra via, saresti deriso come un demagogo; se nel coronamento dell’impresa, esecrato forse come tiranno… Non si può giovar mai a un popolo senza dominarlo! Aggiungi che gli amori della moltitudine sono brevi ed infausti. Né ti sarà concesso d’essere giusto impunemente. Un giovane, povero di ricchezze, ardente, ma inesperto di ingegno come sei tu, sarà sempre o la vittima del forte o l’ordigno del fazioso. Tu non potrai dire schiettamente: – Amo il mio amico, aborro il mio inimico, ed amo più la mia patria che i suoi governatori. – Oh! tu sarai spento dall’arma secreta della calunnia, la tua prigione sarà abbandonata da’ tuoi amici e il tuo sepolcro coperto d’infamia.
         …Perché le antiche calamità della tua patria e le sue presenti sventure non ti hanno ancor insegnato che non si deve aspettar libertà dallo straniero, che scrive sempre le leggi col sangue.
         Tutto è guerra nell’universo. Lo stesso interesse, che la trasse a liberarsi, la persuaderà facilmente all’assassinio e al saccheggio. E allora? E avrai tu la forza e il coraggio… l’universo cercava un amico al popolo.

 

         Rispetto alla dedica del libro, io la offro a me stesso. Ed è questo, dacché mi son posto a cucire la mia odissea, l’unico pensiero veramente comodo e pronto. Non mi costa un minuto di , di no, di ma, e mi risparmia la fatica e il rossore di scrivere una dedicatoria. Ond’io posso dal mio canto risparmiare e al mecenate e al lettore due pagine per lo meno di noia. Le cose tra me e me si passano in confidenza. D’altronde de’ miei avi, bisavi e proavi non saprei che mi dire; non li conosco. Potrei rimediare a questa ignoranza e al vuoto della carta col mio panegirico: ma non si può né si deve, e l’ipocrisia la proscrive assolutamente; e poi… chi crederebbe?… Biasimiamoci. Progetto nuovo e in salvo dalle mentite… Ecco, per altro, violate le regole, e la mia dedicatoria non sarebbe più una dedicatoria.
         Nondimeno bisogna confessare che il libro è mutilato.
         Vittoria, lettore! M’alzo a mezzo il pranzo, per non lasciarmi scappare il più bel pensiero del mondo. La dedica sarà scritta o dall’editore, o dallo stampatore, o dal libraio, o da un amico, o da qualche letterato, o da… – Odore di rancidume!
         Dovrete dunque sempre, vergini muse, baciare la mano della ricchezza, che offre sprezzatamente un tozzo di pane al vostro sacerdote?
         Lettore, finiamola; tu m’hai fatto tastare una certa corda… ed io non ci vo’ più pensare: non ci pensar nemmen tu.
         Ma lo stampatore per non caricarsi la coscienza del pentimento de’ compratori che crederanno di portarsi a casa il libro con tutte le adiacenze e pertinenze, aggiunga nel frontespizio a lettere maiuscole: VI SARA’ L’EPIGRAFE, NON LA DEDICA: CHI LA VUOLE SE LA SCRIVA.




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