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Ugo Foscolo Sesto tomo dell'io IntraText CT - Lettura del testo |
II
Il mio cavallo andava di
passo per la via dell’Appennino e il mio cane mi seguitava.
“Addio, addio, beato paese, ove
la fortuna mi avea fatto obbliare per alcun poco le miserie dei mortali!”. Il
mio cavallo intanto si fermava, perch’io potessi rivolgermi, e salutar da
lontano i colli di Bologna, e la mia solitudine, e te, o Luigi, che forse
parlavi secretamente di me…
Il nominarmi era delitto.
E te e te…, deliziosa
fanciulla, che allora, chi sa? non ti accorgevi nemmen più ch’io ti mancassi.
Ma… addio! il destino forse mi
ricondurrà più felice e più saggio… Ma… conviene dunque ch’io beva la saviezza
nel calice della sventura? Sia: quand’io sarò stanco della burrasca, il
naufragio sarà sempre pronto. Addio, dunque. Che, se mai, se mai non mi vedeste
più… e se…
Se… –
Conviene, per altro, ch’io mi
faccia conoscere a tutti quelli che non mi conoscono. Io dunque sono uno
strumento fatto per ogni tuono, e appunto appunto per modulare le transazioni.
Nel momento de’ miei “addio”
un reggimento di usseri trottava verso la Toscana. Il mio cavallo era normando
di razza, di alta taglia, baio dorato, coda all’inglese, ampio petto, gambe
snelle, orecchie ritte, collo e testa marziale… e vi era da scommettere cento
contr’uno che nelle prime campagne della guerra presente egli avesse avuto il
nome, le funzioni, e le qualità di Baiardo. Vero è ch’egli avea bisogno d’una
valdrappa assai larga che gli coprisse la groppa, e, se si deve credere alla
cronologia de’ cinque compratori che mi hanno preceduto, egli non contava che
sedici anni… più o meno.
Ma gli si leggeva, per altro, e nella fronte e nel portamento “Storie de’
prischi tempi e forti fatti”; onde è naturale che il trottar degli altri
cavalli gli abbia ridestato la memoria delle antiche battaglie e il pizzicore
di farsi apprezzare. Aggiungi la mia divisa militare, la mia lunga scimitarra e
un gran pennacchio che mi ondeggiava sopra il cappello…
Insomma il mio cavallo
cominciò prima a sorbettare e poi a gareggiare di trotto. Lo dirò? Mi sono in
un momento passate dalla testa le care e meste memorie… Io precedeva la cavalleria,
arieggiando il valor di Rinaldo, non parlando più ai colli di Bologna, i quali,
ad onta de’ miei saluti patetici non m’avrebbero mai dato risposta… Così almeno
credo.
Perch’io reputo meno
degenerata la schiatta de’ cavalli che de’ cavalieri. I nostri eroi, stanchi
delle strane avventure, movono guerra, e vincasi per fortuna o per ingegno,
all’opulenza e al piacere, ed offrono in tributo alle Dulcinee una parte della
conquista. E qual Venere mai oserebbe appressarsi all’alloro, se non sentisse
da lungi l’odore del mirto intrecciato e lo splendore del…
Ma voi, signor generale,
m’intendete, senza ch’io vi annoi di più, e mi crederete senza ch’io giuri… Ve’
nondimeno un dubbio insolente: vi sono stati mai degli eroi?… Non vi
corrucciate, vi prego: questo sia per non detto.
Un pensiero per altro rovescia
tutte le riflessioni precedenti, le quali si potrebbe far a meno di leggere.
Dico dunque che la cavalleria di que’g enerosi erranti non ha potuto mai
esistere… se non come la sovranità popolare… Ed eccone la ragione.
Non si legge mai ch’essi
avessero dell’oro.
E non so come… non sieno stati
cacciati dai castellani, dov’essi albergavano a spese dell’aria. Non v’è dunque
oggetto di comparazione fra i paladini e voi, signor generale. – Ma con gli
eroi di Plutarco? – Appunto appunto. Se non che la più gran parte di
que’grand’uomini erano nati ricchi; e voi, che lo sapevate, vi siete arricchito
da voi stesso…
Fra tanto e tanto, è vero
egualmente.
Ma, così svagandomi, mi sono
obbliato di dirti che ho veduto il tuo B… Mi accolse di buon cuore, forse
perché non ha sospettato della mia trista fortuna… o forse ancora per lo stato
cadaverico in cui lo aveva lasciato una febbre maligna, che non gli permetteva
ancora di respirare il libero soffio dell’aria. Gli uomini non perdono
l’orgoglio se non con le forze.
- Io torno dalla soglia della
morte – mi disse fievolmente, porgendomi la mano tremante.
Quel giorno mi sono guardato
di nominarti.
Io avrei toccato nel cuore del
povero malato una corda, la di cui vibrazione non sarebbe cessata sì tosto.
Che fai, deliziosa
fanciulla? Io credeva che il tuo cuore, volando dietro a’ piaceri non si
ricordasse più del suo Lorenzo. Tu non sei sventurata, non sospiri con me la
perduta felicità. Una mesta illusione ti chiama sovente nella mia solitudine.
Io ti parlo e mi faccio rispondere. Talvolta, rammentandomi le nostre ore di
paradiso, ti mando de’ baci; e mi sento su le labbra una certa fresca soavità
come se tu m’avessi baciato in quel momento. E ieri io m’alzava dal letto
salutandoti: – Addio, addio, piccola deità: tu forse non sai, né t’importa,
s’io vivo –. Ma verso sera la tua lettera mi ha rimproverato i miei sospetti;
ed io l’ho bagnata di lagrime riconoscenti.
Buon giorno, dunque. Che la
tua bellezza e la tua gioventù sorridano sempre come l’aurora di questa
mattina. Sempre?… Cielo, cielo, abbi pietà della mia giovinetta!
Che ti dirò intanto?… I miei
mali?… no: la tua compassione sarebbe un balsamo, è vero, al mio povero cuore;
non sarà però mai ch’io voglia avvelenare la pace e la voluttà, fatte per la
tua anima angelica e per la tua sacra bellezza.
Tu vuoi nondimeno ch’io ti
scriva quello che ho imparato nel mio viaggio. Innocente! Gli uomini son tutti
bassi con la ricchezza e orgogliosi con la povertà. Ciascuno è scellerato,
quando il proprio interesse non lo strascini a offrire delle ipocrite
adorazioni a quel fantasma, che la società, cui torna d’ingannarsi e
d’ingannare, chiama pomposamente “virtù”. Ecco tutto.
Ma io scrivo a te, e non alla
ipocondriaca filosofessa che comincia finalmente a moralizzare… e ne appello ai
vecchi amici di casa, tornati nella grazia di Madonna dopo l’ingrato abbandono…
Cura per altro di non nimicartela. Le antiche galanti sono per lo più di buon
cuore, e cercano per le altre quello che hanno perduto con la giovinezza
fuggitiva.
Ascolta. Le donne belle sono
nate per amare, e per essere amate. E tu forse mi dici sorridendo: – Lo so
meglio di te. – Bada; ancora non t’avvedi che mille basse passioni e il cieco
delirio dell’amore turbano quasi sempre le delizie del piacere. Imita la
celeste Temira. a questa sacerdotessa di Venere ho consacrato le primizie della
mia gioventù. Ella amava le buone qualità delle donne, e sfuggiva senza
maldicenza i lor vizi. Ammirava in taluna lo spirito, in tal altra il cuore, in
questa la gioventù, in quella i vezzi, ed ammirava tutti questi doni in se
stessa… Ma non n’era avara per questo. Viveva e lasciava vivere. Il mistero
apriva e chiudeva le cortine del suo letto: – il mistero, intendi? – Era amante
per cinque giorni, ma amica per tutta la vita.
Era un dopo pranzo d’estate. Ella
stava ignuda sopra il suo letto. Appoggiava il gomito sui guanciali, e la testa
alla palma della mano. Io le giaceva vicino ancora anelante, e appena uscito
dagli arcani misteri ove la dea mi aveva iniziato. Mi accarezzava scherzando;
ed io alzava di tratto in tratto la testa e la baciava quasi per ringraziarla,
libando dalle sue labbra i respiri, per i quali ella rinveniva a poco a poco
dalla sua voluttuosa agonia. Il desiderio intanto, calmato ma non estinto, mi
porgeva il nettare del piacere; ed io lo assaporava a piccoli sorsi. Le mie
mani e i miei sguardi erravano qua e là estatici su quelle bellezze che
l’impeto della passione m’avea dapprima mostrato confusamente. La sua bocca
umida e socchiusa, la fisionomia spassionata, gli occhi più azzurri che mai,
nuotanti in un languore voluttuoso, le guance impallidite e rugiadose di
sudore, le chiome sparse in onde dorate su le braccia, su le spalle e nel
petto, le poppe lievemente sommosse dai palpiti del cuore… Eterno Iddio! perché
hai scolpito così tenacemente nella memoria la felicità, che tu, tu… m’hai
rapito per sempre?
Oh!… ma la mia curiosità mi
teneva sospeso su le sue forme… Da quel giorno l’anima mia ha sempre filosofato
sul bello, e ha sdegnato i vezzi troppo comuni di tant’altre donne.
La mia mano scorrea mollemente
per le sue membra bianchissime incarnate di rosa. Ho osato… ove una fina
lanugine biondeggiante……
– Piccolo birichino – disse Temira – baciandomi e sorridendo della mia
ingenuità, – m’ami tu dunque? – Io la guardai. – Fedelmente? – replicò Temira,
che avea sentita tutta l’eloquenza della mia occhiata.
– S’io t’amo, s’io t’amo? –
esclamai.
– Oh! in questa età – proruppe
Temira, abbracciandomi – solo in questa età gli incensi degli uomini sono puri.
Allora soltanto noi respiriamo per un momento il profumo delicato del candore e
della fedeltà… Ma… un momento!
– Io – proseguì – stava tra il
sì e il no sul pensiero d’offrire io medesima il tuo primo sacrificio alla
natura. Temeva di aprire al tuo cuore inesperto ed impetuoso la via del
dissipamento. Io già sentiva il rimorso di sviarti dalle utili discipline ed di
rapirti gli amabili vaneggiamenti di un amore non ancor conosciuto… Ma d’altra
parte mi parea di vederti strascinato dalla prepotenza del tuo naturale a
comprare i baci da una bocca affannata, guastando la tua salute e la tua
gioventù. Talvolta ti sentiva, a piedi di una superba, maledire l’amore, e
gemere respinto e sprezzato. Le donne virtuose nei sospiri de’ loro amanti
sfortunati non altro alimentano che una perfida compiacenza… Vien’ dunque,
vieni. Gli abbracciamenti d’una donna che t’ama t’ammaestrino nel vivere e
t’allontanino dal vizio.
Bada!… non innamorarti! –
(Oh! avessi creduto a Temira,
non avrei tentato di offrire a’ tuoi piedi, o Teresa, il mio cadavere senza
neppure la speme di una lagrima. Ma… così è: ho dovuto sempre bevere la
saviezza nel calice della sventura. Io ti sarò amico sino all’ultimo fiato; ma…
amarti! Non più mai! Io fuggo le memorie della tua bellezza e della tua
crudeltà, simile a un’ombra lamentosa…)
- Cogli i favori delle belle
donne, come i fiori delle stagioni.
Se il cielo ti darà una sposa,
dividi con essa tutta la tua felicità, e dividi con essa nelle disgrazie il pane
e le lagrime. Amatevi, e se vi fosse concesso, amatevi eternamente. Ma questo
amore perfetto se lo hanno purtroppo riserbato i numi. Ancor non è poco se due
amanti, spenta la passione, non s’odiano. Prevenite gli ultimi giorni di una
passione languente che cede sempre il loco alle furie della gelosia e
dell’onore. La tristezza, il sospetto e il tradimento passeggiano sempre
d’intorno al letto di due sposi gelosi. Non vi rapite la sacra amicizia, unico
balsamo all’amarezze della vita. l’amore perfetto è una chimera: il desiderio
fa beati alcuni momenti e l’amicizia conforta tutti i tempi, ed unisce tutte
l’età. Va’, mio ragazzo, te’ un bacio: non mi giurare fedeltà ch’io né la credo
né la voglio.
Vi era, o Psiche, nel tempio
di Venere un voto con questa iscrizione: “Non amo più Tirsi; né prego di amarlo
ancora. Dea! Fa’ che Dorilo m’ami”.
Io voleva insegnarti le
lezioni della mia precettrice fino dal giorno che ti ho detto: – Mi piaci. – Ma
chi era sì pazza da rapire al piacere le brevi ore furtive, appena sfuggite al
sospetto del tuo geloso marito? Mi scrivi pertanto ch’ei s’è corretto. Buon per
lui: che il cielo e la buona fortuna gliene rendano il merito. Tu se’
giovinetta, egli vecchio. Prenda dunque da’ tuoi sedici anni quello che può, e
che… per giustizia non gli viene. La natura in fine de’ conti si ride delle
leggi ipocrite della società. Tu l’ami come fratello, tu l’onori come padre, tu
l’accarezzi come sposo; gli basti. Tu né sei né sì prodiga né sì vana da
ruinare gl’interessi domestici. Il mondo esige le immagini della virtù e
dell’amore e tu le conservi. Poche mogli fanno altrettanto.
Io non so, piccola biricchina,
s’egli fu il primo a cogliere il primo boccio di rosa della tua primavera.
Sorridi? Per me, non posso giurare né per il sì né per il no.
Ma tu, chiunque tu sia, beato
mortale che l’hai colto, inginòcchiati meco dinanzi la madre natura.
O natura! Accogli quest’inno
de’ tuoi figli. I mortali dovrebbero maledirti e renderti questa vita. Pianto,
speranza, terrore e morte, ecco i nostri elementi. Ma tu hai creato la
Bellezza! E noi, adorandola, ti rendiamo grazie anche per i nostri mali.
La preghiera è fatta.