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Giacomo Leopardi Canti IntraText CT - Lettura del testo |
DI UN PASTORE ERRANTE DELL'ASIA
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
La vostra vita a voi? dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
E dove il tanto affaticar fu volto:
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Ed è rischio di morte il nascimento.
Per prima cosa; e in sul principio stesso
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
E consolarlo dell'umano stato:
Non si fa da parenti alla lor prole.
Chi poi di quella consolar convenga?
Perché da noi si dura?
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Che dell'esser mio frale,
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.