II
Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia
professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti,
condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!
L'uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati
via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio
e industre, s'è messo a fabbricar di ferro, d'acciajo le sue nuove divinità ed
è diventato servo e schiavo di esse.
Viva la Macchina che meccanizza la vita!
Vi resta ancora, o signori, un po' d'anima, un po' di cuore e di mente?
Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, che
prodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.
Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete
estrarre da voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?
È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio
spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono
divenuti invece, per forza, i nostri padroni.
La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi la
nostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano,
l'anima e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco
qua: in pezzetti e bocconcini, tutti d'uno stampo, stupidi e precisi, da farne,
a metterli sù, uno su l'altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle.
Ma che stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all'altezza d'un palo
telegrafico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non
più dentro ma fuori, ce ne fa, che - Dio, vedete quante scatole, scatolette,
scatolone, scatoline? - non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un
passo. Ecco le produzioni dell'anima nostra, le scatolette della nostra vita!
Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto la giro
perché possa mangiare. Ma l'anima, a me, non mi serve. Mi serve la mano; cioè
serve alla macchina. L'anima in pasto, in pasto la vita, dovete dargliela voi
signori, alla macchinetta ch'io giro. Mi divertirò a vedere, se permettete, il
prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel divertimento, ve lo dico
io.
Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine,
cominciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremula
ticchettante riproduzione meccanica.
Non dico di no: l'apparenza è lieve
e vivace. Si va, si vola. E il vento della corsa dà un'ansia vigile ilare
acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avanti perché non s'abbia tempo
né modo d'avvertire il peso della tristezza, l'avvilimento della vergogna, che
restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìo continuo, uno sbarbàglio
incessante: tutto guizza e scompare.
Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è
passata.
C'è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza
sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali
telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola lungo il filo dei tram
elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del
motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie.
Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice
che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e
scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo
insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto
crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe
e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido
passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno
di noi non cesserà.
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