IV
Pervenuti in fondo al Corso Vittorio Emanuele, passammo il ponte. Ricordo
che mirai quasi con religioso sgomento la fosca mole rotonda di Castel
Sant'Angelo, alta e solenne sotto lo sfavillìo delle stelle. Le grandi
architetture umane, nella notte, e le costellazioni del cielo pare che
s'intendano tra loro. Nella frescura umida di quell'immenso sfondo notturno,
sentii quel mio sgomento sobbalzare, guizzare come per tanti brividi, che forse
mi venivano dai riflessi serpentini dei lumi degli altri ponti e delle dighe,
nell'acqua nera, misteriosa, del fiume. Ma Simone Pau mi strappò a
quell'ammirazione, volgendo prima verso San Pietro, poi scantonando per il
Vicolo del Villano. Incerto della via, incerto di tutto, nel vuoto orrore delle
vie deserte, piene di strane ombre vacillanti nei radi rivèrberi rossastri dei
fanali, a ogni soffio d'aria, sui muri delle vecchie case, pensavo con terrore
e con nausea alla gente che dormiva sicura in quelle case e non sapeva com'esse
apparissero di fuori a chi errava sperduto per la notte, senza che per lui ce
ne fosse una, ove potesse entrare. Di tratto in tratto, Simone Pau crollava il
testone e si picchiava il petto con due dita. Oh sì! Il monte era lui, l'albero
era lui, il mare era lui; ma l'albergo dov'era? Là, a Borgo Pio? Sì, là vicino:
al Vicolo del Falco. Alzai gli occhi; vidi a destra di quel vicolo un casamento
tetro con una lanterna sospesa davanti al portone: una grossa lanterna, ove la
fiammella del becco sbadigliava a traverso i vetri sudici. Mi fermai davanti a
quel portone mezzo chiuso e mezzo aperto, e lessi su l' arco:
OSPIZIO DI MENDICITÀ
- Tu dormi qua?
- E ci mangio anche. Ciotole di minestre squisite. In ottima compagnia.
Vieni: sono di casa. Difatti, il vecchio portinajo e due altri addetti alla
sorveglianza dell'ospizio, raccolti e curvi tutti e tre attorno a un braciere
di rame lo accolsero come un ospite consueto, salutandolo coi gesti e con la
voce dalla bacheca dell'androne rintronante:
- Buona sera, signor Professore.
Simone Pau mi prevenne, cupo, con molta serietà, che non mi facessi
illusioni perché in quell'albergo non avrei potuto dormire per oltre sei notti
di seguito. Mi spiegò, che ogni sei notti bisognava che ne passassi fuori per
lo meno una all'aperto, per poi ripigliare la serie.
Io, dormire là?
Innanzi a quei tre sorveglianti, ascoltai la spiegazione con un sorriso
afflitto, che pur mi nuotava lieve lieve su le labbra, come per tenermi l'anima
a galla e impedirle di sprofondare nella vergogna di quel basso fondo.
Quantunque in misere condizioni e con poche lire in tasca, ero vestito
bene, coi guanti alle mani, le ghette ai piedi. Volevo prendere l'avventura, con
quel sorriso, come un capriccio bislacco del mio strano amico. Ma Simone Pau se
n'irritò:
- Non ti par serio?
- No, caro, veramente non mi par serio.
- Hai ragione, - disse Simone Pau. - Serio veramente serio, sai chi è? è il
dottore senza collo, vestito di nero, con grossa barba nera e occhiali a
staffa, che nelle piazze addormenta la sonnambula. Io non sono ancora serio
fino a questo punto. Puoi ridere, amico Serafino.
E seguitò a spiegarmi, che - tutto gratis, lì. D'inverno, nella branda, due
lenzuola di bucato solide e fresche come vele di barca, e due grosse coperte di
lana; d'estate, le sole lenzuola e una lucchesina per chi la vuole; poi, un
accappatojo e un pajo di pantofole di tela con suola di corda, lavabili.
- Bada bene, lavabili.
- E perché?
- Ti spiego. Con quelle pantofole e con quell'accappatojo ti danno una
tessera; tu entri in quello spogliatojo là - quella porta là, a destra - ti
spogli e consegni gli abiti, scarpe comprese, per la disinfezione, che si fa
nei forni, di là. Quindi... ecco, vieni qua, guarda... Vedi questa bella
piscina?
Sprofondai gli occhi e guardai.
Piscina? Era un antro mùffido, angusto e profondo, una specie di cava da
ricettarvi majali, tagliata nella pietra viva per lungo, a cui si scendeva per
cinque o sei gradini e da cui esalava un puzzo ardente di lavatojo. Un tubo di
latta, tutto a forellini gialli di ruggine, vi correva sopra, in mezzo, da un
capo all'altro.
- Ebbene?
- Ti spogli di là; consegni gli abiti...
-...scarpe comprese...
-...scarpe comprese, per la disinfezione, e t'introduci nudo qua dentro.
- Nudo?
- Nudo in compagnia d'altri sei o sette nudi. Uno di questi cari amici qua
della bacheca apre la chiavetta dell'acqua, e tu, sotto il tubo, zifff...
ti prendi gratis, in piedi, una bellissima doccia. Poi t'asciughi
magnificamente con l'accappatojo, ti calzi le pantofole di tela, te ne sali
zitto zitto in processione con gli altri incappati per la scala; eccola qua; là
c'è la porta del dormitorio, e buona notte.
- Imprescindibile?
- Che? La doccia? Ah, perché tu hai i guanti e le ghette, amico Serafino?
Ma te le puoi levare senza vergogna. Ciascuno qua si leva le proprie vergogne
d'addosso, e si presenta nudo al battesimo di questa piscina! Non hai il
coraggio di scendere fino a queste nudità?
Non ce ne fu bisogno. La doccia è obbligatoria solo per i mendicanti
sporchi. Simone Pau non l'aveva mai presa.
Egli è lì, veramente, professore. Sono annessi a quell'asilo notturno una
cucina economica e un ricovero per i ragazzi senza tetto, d'ambo i sessi, figli
di mendicanti, figli di carcerati, figli di tutte le colpe. Sono sotto la
custodia di alcune suore di carità, che han trovato modo d'istituire per essi
anche una scoletta. Simone Pau, quantunque per professione nimicissimo
dell'umanità e di qualsiasi insegnamento, dà lezione con molto piacere a quei
ragazzi, per due ore al giorno, la mattina per tempo; e i ragazzi gli vogliono
un gran bene. Egli ha là, in compenso, alloggio e vitto: cioè una cameretta,
tutta per lui, comoda e decente, e un servizio di cucina particolare, insieme
con quattro altri insegnanti, che sono un povero vecchietto pensionato dal
Governo pontificio e tre zitellone maestre, amiche delle suore e lì ricoverate.
Ma Simone Pau lascia il vitto particolare perché a mezzogiorno non è mai
all'ospizio, e soltanto la sera, quando gli va, prende qualche ciotola di
minestra dalla cucina comune; tiene la cameretta, ma non ne approfitta mai,
perché va a dormire nel dormitorio dell'asilo notturno, per la compagnia che vi
trova, e a cui ha preso gusto, di esseri obliqui e randagi. Tolte quelle due
ore di lezione, passa tutto il tempo nelle biblioteche e nei caffè; ogni tanto,
stampa su qualche rassegna di filosofia uno studio che stordisce tutti per la
bizzarra novità delle vedute, la stranezza delle argomentazioni e la copia
della dottrina; e si rimpannuccia.
Io, allora, ripeto, non sapevo
tutto questo. Credevo, e forse in parte era vero, ch'egli mi avesse condotto lì
per il piacere di sbalordirmi; e poiché non c'è miglior mezzo di sconcertare
chi voglia sbalordirvi con paradossi sbardellati o con le più strane e
bislacche proposte, che fingere d'accettar quei paradossi come fossero le
verità più ovvie e quelle proposte come naturalissime e del caso; così feci io
quella sera, per sconcertare il mio amico Simone Pau. Il quale, capito il mio
proposito, mi guardò negli occhi e, vedendomeli perfettamente impassibili,
esclamò sorridendo:
- Come sei imbecille!
Mi profferse la sua cameretta; credetti in principio che scherzasse; ma
quando m'assicurò che aveva lì veramente una cameretta per sé non volli
accettare e andai con lui nel dormitorio dell'asilo. Non me ne pento, perché al
disagio e al ribrezzo che provai in quell'orrido luogo ebbi due compensi:
1° quello di trovare il posto, che occupo al presente, o meglio,
l'occasione di entrare come operatore nella grande Casa di cinematografia La
Kosmograph;
2° quello di conoscere l'uomo, che per me è rimasto il simbolo della sorte
miserabile, a cui il continuo progresso condanna l'umanità.
Ecco, prima, l'uomo.
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