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Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio

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  • Quaderno primo
    • VI
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VI

 

Tutte le considerazioni da me fatte in principio sulla mia sorte miserabile e su quella di tanti altri condannati come me a non esser altro che una mano che gira una manovella, hanno per punto di partenza quest'uomo incontrato la prima sera del mio arrivo a Roma. Certamente ho potuto farle, perché anch'io mi sono ridotto a quest'ufficio di servitore d'una macchina; ma son venute dopo.

Lo dico, perché quest'uomo, presentato qui, dopo quelle considerazioni, potrebbe parere a qualcuno una mia grottesca invenzione. Ma si badi ch'io forse non avrei mai pensato di fare quelle considerazioni, se in parte non me le avesse suggerite Simone Pau nel presentarmi quel disgraziato; e che, del resto, grottesca è tutta la mia prima avventura, e tale perché grottesco è, e vuol essere, quasi per professione, Simone Pau, il quale, per darmene un saggio fin dalla prima sera, volle condurmi a dormire in un ospizio di mendicità.

Io non feci allora nessunissima considerazione; prima, perché non potevo pensare neppur lontanamente che mi sarei ridotto a quest'ufficio; poi, perché me l'avrebbe impedito un gran tramestìo per la scala del dormitorio e un irrompere confuso e festante di tutti quei ricoverati già scesi allo spogliatojo per ritirare i loro panni. Che era accaduto?

Ritornavano , insaccati di nuovo nei bianchi accappatoj, e con le pantofole ai piedi. Tra loro, e insieme coi custodi e le suore di carità addette al ricovero e alla cucina economica, eran parecchi signori e qualche signora, tutti ben vestiti e sorridenti, con un'aria curiosa e nuova. Due di quei signori avevano in mano una macchinetta, che ora conosco bene, avvolta in una coperta nera, e sotto il braccio il treppiedi a gambe rientranti. Erano attori e operatori d'una Casa cinematografica, e venivano per un film a cogliere dal vero una scena d'asilo notturno.

La Casa cinematografica, che mandava quegli attori, era la Kosmograph, nella quale io da otto mesi ho il posto d'operatore; e il direttore di scena, che li guidava, era Nicola Polacco, o, come tutti lo chiamano, Cocò Polacco, mio amico d'infanzia e compagno di studii a Napoli nella prima giovinezza. Debbo a lui il posto e alla fortunata congiuntura d'essermi trovato quella notte con Simone Pau in quell'asilo notturno.

Ma né a me, ripeto, venne in mente, quella mattina, che mi sarei ridotto a collocar sul treppiedi una macchina di presa, come vedevo fare a quei due signori, né a Cocò Polacco di propormi un tale ufficio. Egli, da quel buon figliuolo che è, non stentò molto a riconoscermi, quantunque io - riconosciutolo subito - facessi di tutto per non essere scorto da lui in quel luogo miserabile, vedendolo raggiante d'eleganza parigina e con un'aria e un'impostatura di condottiero invincibile, tra quegli attori, quelle attrici e tutte quelle reclute della miseria, che non capivano più nei loro bianchi càmici dalla gioja d'un guadagno insperato. Si mostrò sorpreso di trovarmi , ma soltanto per l'ora mattutina, e mi domandò come avessi saputo ch'egli con la sua compagnia dovesse venire quella mattina nell'asilo per un interno dal vero. Lo lasciai nell'inganno, che mi trovassi per caso come un curioso; gli presentai Simone Pau (l'uomo dal violino, nella confusione, era sgattajolato via); e rimasi ad assistere disgustato alla sconcia contaminazione di quella triste realtà, di cui avevo nella notte assaporato l'orrore, con la stupida finzione che il Polacco era venuto a iscenarvi.

Ma il disgusto, forse, lo sento adesso. Quella mattina, dovevo avere più che altro curiosità d'assistere per la prima volta all'iscenatura d'una cinematografia. Pure la curiosità, a un certo punto, mi fu distratta da una di quelle attrici, la quale, appena intravista, me ne suscitò un'altra assai più viva.

La Nestoroff... Possibile? Mi pareva lei e non mi pareva. Quei capelli d'uno strano color fulvo quasi cùpreo, il modo di vestire, sobrio, quasi rigido, non erano suoi. Ma l'incesso dell'esile elegantissima persona, con un che di felino nella mossa dei fianchi; il capo alto, un po' inclinato da una parte, e quel sorriso dolcissimo su le labbra fresche come due foglie di rosa, appena qualcuno le rivolgeva la parola; quegli occhi stranamente aperti, glauchi, fissi, e vani a un tempo, e freddi nell'ombra delle lunghissime ciglia, erano suoi, ben suoi, con quella sicurezza tutta sua, che ciascuno, qualunque cosa ella fosse per dire o per chiedere, le avrebbe risposto di sì.

Varia Nestoroff... Possibile? Attrice d'una Casa di cinematografia?

Mi balenarono in mente Capri, la Colonia russa, Napoli, tanti rumorosi convegni di giovani artisti, pittori, scultori, in strani ridotti eccentrici, pieni di sole e di colore, e una casa, una dolce casa di campagna, presso Sorrento, dove quella donna aveva portato lo scompiglio e la morte.

Quando, ripetuta per due volte la scena per cui la compagnia era venuta in quell'asilo, Cocò Polacco m'invitò ad andarlo a trovare alla Kosmograph, io, ancora in dubbio gli domandai se quell'attrice fosse proprio la Nestoroff.

- Sì, caro, - mi rispose, sbuffando. - Ne sai forse la storia?

Gli accennai di sì col capo.

- Ah, ma non puoi saperne il seguito - riprese il Polacco. - Vieni, vieni a trovarmi alla Kosmograph; te ne dirò di belle. Gubbio, pagherei non so che cosa per levarmi dai piedi questa donna. Ma, guarda, è più facile che...

- Polacco! Polacco! - chiamò a questo punto colei.

E dalla premura con cui Cocò Polacco accorse alla chiamata, compresi bene qual potere ella avesse nella Casa, ov'era scritturata quale prima attrice con uno dei più lauti stipendii.

Alcuni giorni dopo mi recai alla Kosmograph, non per altro, per conoscere il seguito della storia, purtroppo a me nota, di quella donna.

 

 




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