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Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio

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  • Quaderno secondo
    • II
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II

 

I fatti che seguirono a questa tenue, ingenua vita d'idillio, circa quattr'anni dopo, io li conosco sommariamente.

Facevo a Giorgio Mirelli da ripetitore, ma ero anch'io studente, un povero studente invecchiato nell'attesa di proseguir gli studii e a cui i sacrifizi durati dai parenti per mantenerlo alle scuole avevano spontaneamente persuaso il massimo zelo, la massima diligenza, una timida umiltà accorata, una soggezione che tuttavia non si stancava, benché quell'attesa si prolungasse ormai da molti e molti anni.

Ma forse non fu tempo perduto. Studiai da me e meditai, in quell'attesa, molto più e con profitto di gran lunga maggiore, che non avessi fatto negli anni di scuola; e da me imparai il latino e il greco, per tentare il passaggio dagli studii tecnici a cui ero stato avviato, ai classici, con la speranza che mi fosse più facile entrare per questa via all'Università.

Certo, questo genere di studii si confaceva assai più alla mia intelligenza. M'affondai in essi con passione così intensa e viva, che, a ventisei anni, quando per una insperata modestissima eredità di uno zio prete (morto nelle Puglie e da un pezzo quasi dimenticato dalla mia famiglia) potei finalmente entrare all'Università, rimasi a lungo perplesso, se non mi convenisse lasciar nel cassetto, ove da tant'anni dormiva, il diploma di licenza dall'istituto tecnico, e di procurarmi quella dal liceo, per iscrivermi nella facoltà di filosofia e lettere.

Prevalsero i consigli dei parenti, e partii per Liegi, dove, con questo baco in corpo della filosofia, feci intima e tormentosa conoscenza con tutte le macchine inventate dall'uomo per la sua felicità.

Ne ho cavato, come si vede, un gran profitto. Mi sono allontanato con orrore istintivo dalla realtà, quale gli altri la vedono e la toccano, senza tuttavia poterne affermare una mia, dentro e attorno a me, poiché i miei sentimenti distratti e fuorviati non riescono a darevaloresenso a questa mia vita inetta e senz'amore. Guardo ormai tutto, e anche me stesso, come da lontano; e da nessuna cosa mai mi viene un cenno amoroso ad accostarmi con fiducia o con speranza d'averne qualche conforto. Cenni, sì, pietosi, mi sembra di scorgere negli occhi di tanta gente, negli aspetti di tanti luoghi che mi spingono non a ricevere né a dare conforto, che non può darne chi non può riceverne; ma pietà. Eh, pietà, sì... Ma so che la pietà, a dare e a ricevere, è così difficile.

Per parecchi anni, ritornato a Napoli, non trovai da far nulla; feci vita da scapigliato con giovani artisti, finché durarono gli ultimi resti di quella piccola eredità. Devo al caso, com'ho detto, e all'amicizia d'un mio antico compagno di studii il posto che occupo. Lo tengo - diciamolo, sì - con onore, e del mio lavoro sono ben remunerato. Oh, mi stimano tutti qua, un ottimo operatore: vigile, preciso e d'una perfetta impassibilità. Se debbo esser grato al Polacco, anche Polacco dev'esser grato a me della benemerenza che s'è acquistata presso il commendator Borgalli, direttore generale e consigliere delegato della Kosmograph, per l'acquisto che la Casa ha fatto d'un operatore come me. Il signor Gubbio non è addetto propriamente a nessuna delle quattro compagnie del reparto artistico, ma è chiamato or qua or da tutte, per la confezione dei films di più lungo metraggio e più difficili. Il signor Gubbio lavora molto di più degli altri cinque operatori della Casa; ma per ogni film ben riuscito ha un ricco dono e frequenti gratificazioni. Dovrei esser lieto e soddisfatto. Rimpiango invece il tempo della magrezza e delle follie a Napoli tra i giovani artisti.

Appena ritornato da Liegi, rividi Giorgio Mirelli, già colà da due anni. Aveva di recente esposto in una mostra d'arte due strani quadri, che avevano suscitato nella critica e nel pubblico lunghe e violente discussioni. Conservava l'ingenuità e il fervore dei sedici anni; non aveva occhi per vedere la trascuratezza del suo vestire, i suoi capelli arruffati, i primi peli radi che gli s'arricciavano lunghi sul mento e su le gote magre, come a un malato: e malato era d'una divina malattia; in preda a un'ansia continua, che non gli faceva né scorgeretoccare quella che per gli altri era la realtà della vita; sempre sul punto di lanciarsi con impeto a qualche richiamo misterioso, lontano, che lui solo intendeva.

Gli domandai de' suoi. Mi disse che nonno Carlo era morto da poco. Lo guardai maravigliato del modo con cui mi dava quella notizia; pareva non avesse provato alcuna pena di quella morte. Ma, richiamato da quel mio sguardo al suo dolore, disse: - Povero nonno... - con tanto rimpianto e con un tal sorriso, che subito mi ricredetti e compresi ch'egli, nel tumulto di tanta vita che gli ferveva dentro, non aveva né modo né tempo di pensare a' suoi dolori.

E nonna Rosa? Nonna Rosa stava bene... sì, benino... come poteva, povera vecchietta, dopo quella morte. Due spighe di rizòmolo, adesso, da riempir di gelsomini, ogni mattina, una per il morto recente, l'altra per il morto lontano.

E Duccella, Duccella?

Ah come risero gli occhi del fratello alla mia domanda!

- Vermiglia! vermiglia!

E mi disse che già da un anno era fidanzata al baronello Aldo Nuti. Le nozze si sarebbero dovute celebrare tra poco; erano state rimandate per la morte di nonno Carlo.

Ma non si mostrò lieto di quelle nozze; mi disse anzi che Aldo Nuti non gli pareva un compagno adatto per Duccella; e, agitando in aria le dita delle due mani, uscì in quell'esclamazione di nausea, che soleva usare quand'io m'affannavo a fargli capire le regole e le partizioni della seconda declinazione greca:

- Complicato! complicato! complicato!

Non era più possibile tenerlo fermo, dopo questa esclamazione. E come scappava allora dal tavolino da studio, mi scappò davanti quella volta. Lo perdetti di vista per più d'un anno. Seppi da' suoi compagni d'arte, che se n'era andato a Capri, a dipingere. Trovò Varia Nestoroff.

 




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