III
Entro nel vestibolo a sinistra, e riesco nella rampa del cancello,
inghiajata e incassata tra i fabbricati del secondo reparto, il Reparto
Fotografico o del Positivo.
In qualità d'operatore ho il privilegio d'aver un piede in questo reparto e
l'altro nel Reparto Artistico o del Negativo. E tutte le
meraviglie della complicazione industriale e così detta artistica mi sono
familiari.
Qua si compie misteriosamente l'opera delle macchine.
Quanto di vita le macchine han mangiato con la voracità delle bestie
afflitte da un verme solitario, si rovescia qua, nelle ampie stanze sotterranee,
stenebrate appena da cupe lanterne rosse, che alluciano sinistramente d'una
lieve tinta sanguigna le enormi bacinelle preparate per il bagno.
La vita ingojata dalle macchine è lì, in quei vermi solitarii, dico nelle
pellicole già avvolte nei telaj.
Bisogna fissare questa vita, che non è più vita, perché un'altra macchina
possa ridarle il movimento qui in tanti attimi sospeso.
Siamo come in un ventre, nel quale si stia sviluppando e formando una
mostruosa gestazione meccanica.
E quante mani nell'ombra vi lavorano! C'è qui un intero esercito d'uomini e
di donne: operatori, tecnici, custodi, addetti alle dinamo e agli altri
macchinarii, ai prosciugatoj, all'imbibizione, ai viraggi, alla coloritura,
alla perforatura della pellicola, alla legatura dei pezzi.
Basta ch'io entri qui, in quest'oscurità appestata dal fiato delle
macchine, dalle esalazioni delle sostanze chimiche, perché tutto il mio superfluo
svapori.
Mani, non vedo altro che mani, in queste camere oscure; mani affaccendate
su le bacinelle; mani, cui il tetro lucore delle lanterne rosse dà un'apparenza
spettrale. Penso che queste mani appartengono ad uomini che non sono più; che
qui sono condannati ad esser mani soltanto: queste mani, strumenti. Hanno un
cuore? A che serve? Qua non serve. Solo come strumento anch'esso di macchina,
può servire, per muovere queste mani. E così la testa: solo per pensare ciò che
a queste mani può servire. E a poco a poco m'invade tutto l'orrore della
necessità che mi s'impone, di diventare anch'io una mano e nient'altro.
Vado dal magazziniere a provvedermi di pellicola vergine, e preparo per il
pasto la mia macchinetta.
Assumo subito, con essa in mano, la mia maschera d'impassibilità. Anzi,
ecco: non sono più. Cammina lei, adesso, con le mie gambe. Da capo a piedi, son
cosa sua: faccio parte del suo congegno. La mia testa è qua, nella macchinetta,
e me la porto in mano.
Fuori, alla luce, per tutto il vastissimo recinto, è l'animazione gaja
delle imprese che prosperano e compensano puntualmente e lautamente ogni
lavoro; quello scorrer facile dell'opera nella sicurezza che non ci saranno
intoppi e che ogni difficoltà, per la gran copia dei mezzi, sarà agevolmente
superata; una febbre anzi di porsi, quasi per sfida, le difficoltà più strane e
insolite, senza badare a spese, con la certezza che il danaro, speso adesso
senza contarlo, ritornerà tra poco centuplicato. Scenografi, macchinisti,
apparatori, falegnami, muratori e stuccatori, elettricisti, sarti e sarte,
modiste, fioraj, tant'altri operaj addetti alla calzoleria, alla cappelleria,
all'armeria, ai magazzini della mobilia antica e moderna, al guardaroba, son
tutti affaccendati, ma non sul serio e neppure per giuoco.
Solo i fanciulli han la divina fortuna di prendere sul serio i loro
giuochi. La meraviglia è in loro; la rovesciano su le cose con cui giuocano, e
se ne lasciano ingannare. Non è più un giuoco; è una realtà meravigliosa.
Qui è tutto il contrario.
Non si lavora per giuoco, perché nessuno ha voglia di giocare. Ma come
prendere sul serio un lavoro, che altro scopo non ha, se non d'ingannare - non
se stessi - ma gli altri? E ingannare, mettendo sù le più stupide finzioni, a
cui la macchina è incaricata di dare la realtà meravigliosa?
Ne vien fuori, per forza e senza possibilità d'inganno, un ibrido giuoco.
Ibrido, perché in esso la stupidità della finzione tanto più si scopre e
avventa, in quanto si vede attuata appunto col mezzo che meno si presta
all'inganno: la riproduzione fotografica. Si dovrebbe capire, che il fantastico
non può acquistare realtà, se non per mezzo dell'arte, e che quella realtà, che
può dargli una macchina, lo uccide, per il solo fatto che gli è data da una
macchina, cioè con un mezzo che ne scopre e dimostra la finzione per il fatto
stesso che lo dà e presenta come reale. Ma se è meccanismo, come può esser
vita, come può esser arte? È quasi come entrare in uno di quei musei di statue
viventi, di cera, vestite e dipinte. Non si prova altro che la sorpresa (che
qui può essere anche ribrezzo) del movimento, dove non è possibile l'illusione
d'una realtà materiale.
E nessuno crede sul serio di poterla creare, quest'illusione. Si fa alla
meglio per dar roba da prendere alla macchina, qua nei cantieri, là nei quattro
teatri di posa o nelle piattaforme. Il pubblico, come la macchina, prende
tutto. Si fan denari a palate, e migliaja e migliaja di lire si possono
spendere allegramente per la costruzione d'una scena, che su lo schermo non
durerà più di due minuti.
Apparatori, macchinisti, attori si dànno tutti l'aria d'ingannare la
macchina, che darà apparenza di realtà a tutte le loro finzioni. Che sono io
per essi, io che con molta serietà assisto impassibile, girando la manovella, a
quel loro stupido giuoco?
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