VI
Non è tanto per me - Gubbio - l'antipatia, quanto per la mia macchinetta.
Si ritorce su me, perché io sono quello che la gira.
Essi non se ne rendono conto chiaramente, ma io, con la manovella in mano,
sono in realtà per loro una specie d'esecutore.
Ciascun d'essi - parlo s'intende dei veri attori, cioè di quelli che amano
veramente la loro arte qualunque sia il loro valore - è qui di mala voglia, è
qui perché pagato meglio, e per un lavoro che, se pur gli costa qualche fatica,
non gli richiede sforzi d'intelligenza. Spesso, ripeto, non sanno neppure che
parte stiano a rappresentare.
La macchina, con gli enormi guadagni che produce, se li assolda, può
compensarli molto meglio che qualunque impresario o direttore proprietario di
compagnia drammatica. Non solo; ma essa, con le sue riproduzioni meccaniche,
potendo offrire a buon mercato al gran pubblico uno spettacolo sempre nuovo,
riempie le sale dei cinematografi e lascia vuoti i teatri, sicché tutte, o
quasi, le compagnie drammatiche fanno ormai meschini affari; e gli attori, per
non languire, si vedono costretti a picchiare alle porte delle Case di
cinematografia. Ma non odiano la macchina soltanto per l'avvilimento del lavoro
stupido e muto a cui essa li condanna; la odiano sopra tutto perché si vedono
allontanati, si sentono strappati dalla comunione diretta col pubblico, da cui
prima traevano il miglior compenso e la maggior soddisfazione: quella di
vedere, di sentire dal palcoscenico, in un teatro, una moltitudine intenta e
sospesa seguire la loro azione viva, commuoversi, fremere, ridere,
accendersi, prorompere in applausi.
Qua si sentono come in esilio. In esilio, non soltanto dal palcoscenico, ma
quasi anche da se stessi. Perché la loro azione, l'azione viva del loro
corpo vivo, là, su la tela dei cinematografi, non c'è più: c'è la
loro immagine soltanto, colta in un momento, in un gesto, in una
espressione, che guizza e scompare. Avvertono confusamente, con un senso
smanioso, indefinibile di vuoto, anzi di vôtamento, che il loro corpo è quasi
sottratto, soppresso, privato della sua realtà, del suo respiro, della sua
voce, del rumore ch'esso produce movendosi, per diventare soltanto un'immagine
muta, che trèmola per un momento su lo schermo e scompare in silenzio, d'un
tratto, come un'ombra inconsistente, giuoco d'illusione su uno squallido pezzo
di tela.
Si sentano schiavi anch'essi di questa macchinetta stridula, che pare sul
treppiedi a gambe rientranti un grosso ragno in agguato, un ragno che succhia e
assorbe la loro realtà viva per renderla parvenza evanescente, momentanea,
giuoco d'illusione meccanica davanti al pubblico. E colui che li spoglia della
loro realtà e la dà a mangiare alla macchinetta; che riduce ombra il loro
corpo, chi è? Sono io, Gubbio.
Essi restano qua, come su un palcoscenico di giorno, quando provano. La
sera della rappresentazione per essi non viene mai. Il pubblico non lo vedono
più. Pensa la macchinetta alla rappresentazione davanti al pubblico, con le
loro ombre; ed essi debbono contentarsi di rappresentare solo davanti a lei.
Quando hanno rappresentato, la loro rappresentazione è pellicola.
Mi possono voler bene?
Un certo rinfranco all'avvilimento lo hanno nel non vedersi essi soli
mortificati al servizio di questa macchinetta, che muove, agita, attrae tanto
mondo attorno a sé. Scrittori illustri, commediografi, poeti, romanzieri,
vengono qua, tutti al solito dignitosamente proponendo la “rigenerazione
artistica” dell'industria. E a tutti il commendator Borgalli parla d'un modo, e
Cocò Polacco d'un altro: quello, coi guanti da direttore generale; questo,
sbottonato, da direttore di scena. Ascolta paziente tutte le proposte di scenarii,
Cocò Polacco; ma a un certo punto alza una mano, dice:
- Oh no, quest'è un po' crudo. Dobbiamo sempre aver l'occhio agl'Inglesi,
caro mio!
Trovata genialissima, questa degli Inglesi. Veramente la maggior parte
delle pellicole prodotte dalla Kosmograph va in Inghilterra. Bisogna
dunque per la scelta degli argomenti adattarsi al gusto inglese. E quante cose
allora non vogliono gl'Inglesi nelle pellicole, secondo Cocò Polacco!
- La pruderie inglese, tu capisci! Basta che dicano shocking,
e addio ogni cosa! Se le pellicole andassero direttamente al giudizio del
pubblico, forse forse tante cose passerebbero; ma no: per l'importazione delle
pellicole in Inghilterra ci sono gli agenti, c'è lo scoglio, c'è la piaga degli
agenti. Decidono loro, gli agenti, inappellabilmente: questo va, questo non va.
E per ogni film che non vada, sono centinaja di migliaja di lire perdute
o che vengono meno.
Oppure Cocò Polacco esclama:
- Bellissimo! Ma questo, caro mio, è un dramma, un dramma perfetto!
Successone sicuro! Vuoi fare una pellicola? Non te lo permetterò mai! Come
pellicola non va: te l'ho detto, caro, troppo fino, troppo fino. Qua ci vuol
altro! Tu sei troppo intelligente, e lo intendi.
In fondo, Cocò Polacco, se rifiuta loro i soggetti, fa pure un elogio: dice
loro che non sono stupidi abbastanza per scrivere per il cinematografo. Da un
canto, perciò, essi vorrebbero capire, si rassegnerebbero a capire; ma,
dall'altro, vorrebbero anche accettati i soggetti. Cento, duecento cinquanta,
trecento lire, in certi momenti... Il dubbio, che l'elogio della loro
intelligenza e il disprezzo del cinematografo quale strumento d'arte siano
messi avanti per rifiutare con un certo garbo i soggetti balena a qualcuno di
loro; ma la dignità è salva e se ne possono andar via a testa alta. Da lontano
gli attori li salutano come compagni di sventura.
- Tutti bisogna che passino di qua! - pensano tra loro con gioja maligna. -
Anche le teste coronate! Tutti di qua, stampati per un momento su un lenzuolo!
Giorni sono, ero con Fantappiè nel cortile ov'è la Sala di prova e
l'ufficio della Direzione artistica, quando scorgemmo un vecchietto
zazzeruto, in cappello a stajo, dal naso enorme, dagli occhi loschi dietro gli
occhiali d'oro, la barbetta a collana, che pareva tutto ristretto in sé per
paura dei grandi manifesti illustrati incollati al muro, rossi, gialli,
azzurri, sgargianti, terribili, dei films che più hanno fatto onore alla
Casa.
- Illustre senatore! - esclamò Fantappiè con un balzo, accorrendo e poi
piantandosi su l'attenti con la mano levata comicamente al saluto militare. - È
venuto per la prova?
- Già... sì... mi avevano detto per le dieci, - rispose l'illustre
senatore, sforzandosi di discernere con chi parlava.
- Per le dieci? Chi gliel'ha detto? Polacco?
- Non capisco...
- Il direttore Polacco?
- No, un italiano... uno che chiamano l'ingegnere...
- Ah, capito: Bertini! Le aveva detto per le dieci? Non dubiti. Sono le
dieci e mezzo. Per le undici certo sarà qui.
Era il venerando Professor Zeme, l'insigne astronomo, direttore dell'Osservatorio
e senatore del Regno, accademico dei Lincei, insignito di non so quante
onorificenze italiane e straniere, invitato a tutti i pranzi di Corte.
- E... scusi, senatore, - riprese quel burlone di Fantappiè. - Una domanda:
non potrebbe farmi andare nella Luna?
- Io? nella Luna?
- Sì, dico... cinematograficamente, si capisce... Fantappiè nella Luna:
sarebbe delizioso! In ricognizione, con otto soldati. Ci pensi un po',
senatore. Concerterei la scenetta... No? Dice di no?
Il senator Zeme disse di no, con la mano, se non proprio sdegnosamente,
certo con molta austerità. Uno scienziato pari suo non poteva prestarsi a
mettere a servizio d'una buffonata la sua scienza. Si è prestato, sì, a farsi prendere
in tutti gli atteggiamenti nel suo Osservatorio; ha voluto anche projettato su
lo schermo il registro delle firme dei più illustri visitatori
dell'Osservatorio, perché il pubblico vi leggesse le firme delle LL. MM. il Re
e la Regina e delle LL. AA. RR. il Principe Ereditario e le Principessine e di
S. M. il Re di Spagna e di altri re e ministri di Stato e ambasciatori; ma
tutto questo a maggior gloria della sua scienza e per dare al popolo una
qualche immagine delle Meraviglie dei cieli (titolo della
pellicola) e delle formidabili grandezze, in mezzo alle quali lui, il senator
Zeme, pur così piccoletto com'è, vive e lavora.
- Martuf!- esclamò sotto sotto Fantappiè, da buon piemontese, con
una delle sue solite smorfie, andando via con me.
Ma ritornammo indietro, poco dopo, attirati da un gran clamore di voci, che
s'era levato nel cortile.
Attori, attrici, operatori, direttori di scena, macchinisti erano usciti
dai camerini e dalla Sala di prova e stavano attorno al senator Zeme
alle prese con Simone Pau, che suol venire di tanto in tanto a trovarmi alla Kosmograph.
- Ma che educazione del popolo! - urlava Simone Pau. - Mi faccia il
piacere! Mandi Fantappiè nella Luna! Lo faccia giocare alle bocce con le
stelle! O crede forse che siano sue, le stelle? Qua, le consegni qua alla
divina Sciocchezza degli uomini, che ha tutto il diritto di appropriarsene e di
giocarci alle bocce! Del resto... del resto, scusi, che fa lei? che crede
d'esser lei? Lei non vede che l'oggetto! Lei non ha coscienza che dell'oggetto!
Dunque, religione. E il suo Dio è il cannocchiale! Lei crede che sia il suo
strumento? Non è vero! Quello è il suo Dio, e lei lo venera! Lei è come Gubbio,
qua, con la sua macchinetta! Il servitore... non voglio offenderla, dirò il
sacerdote, il pontefice massimo, le basta? di quel suo Dio, e giura nel domma
della sua infallibilità. Dov'è Gubbio? Viva Gubbio! viva Gubbio! Aspetti, non
se ne vada, Senatore! Io sono venuto qua, questa mattina, per consolare un
infelice. Gli ho dato convegno qua: già dovrebbe essere qua! Un infelice, mio
compagno avventore dell'albergo del Falco... Non c'è miglior mezzo per
consolare un infelice, che mostrargli e fargli toccar con mano che non è solo.
E l'ho invitato qua, tra questi bravi amici artisti. È un artista anche lui!
Eccolo qua! Eccolo qua!
E l'uomo dal violino, lungo lungo, inarcocchiato e tenebroso, ch'io vidi or
è più di un anno nell'ospizio di mendicità, si fece avanti, come assorto, al
solito, a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.
Tutti fecero largo. Nel silenzio sopravvenuto, crepitò qualche scoppio di
risa, qua e là. Ma lo stupore e un certo senso di ribrezzo teneva la maggior
parte nel vedere quell'uomo avanzarsi a capo chino con gli occhi a quel modo
assorti ai peli delle sopracciglia, quasi non volesse vedersi il naso carnuto e
rosso, peso enorme e castigo della sua intemperanza. Più che mai, adesso,
avanzandosi, pareva dicesse: - Silenzio! Fate largo! Vedete come la vita può
ridurre il naso d'un uomo?
Simone Pau lo presentò al senator Zeme, che scappò via, indignato; risero
tutti; ma Simone Pau, serio, riprese a far la presentazione alle attrici, agli
attori, ai direttori di scena, narrando a scatti un po' all'uno un po'
all'altro, la storia del suo amico, e come e perché dopo quell'ultimo famoso
intoppo non avesse più sonato. Alla fine, tutto acceso, gridò:
- Ma egli oggi sonerà, signori! Sonerà! Romperà l'incanto malefico! Mi ha
promesso che sonerà! Ma non a voi, signori! Voi vi terrete discosti. M'ha
promesso che sonerà alla tigre! Sì, sì, alla tigre! alla tigre! Bisogna
rispettare questa sua idea! Certo avrà le sue buone ragioni! Andiamo, sù,
andiamo tutti... Ci terremo discosti... Egli si farà, solo, innanzi alla
gabbia, e sonerà!
Tra gridi, risa, applausi, sospinti tutti da una vivissima curiosità per la
bizzarra avventura, seguimmo Simone Pau, che aveva preso sotto il braccio il
suo uomo, e lo spingeva avanti seguendo le indicazioni che gli si gridavano
dietro, su la via da tenere per andare al serraglio. In vista delle gabbie, ci
arrestò tutti, raccomandando silenzio, e mandò avanti, solo, quell'uomo col suo
violino.
Al rumore, dai cantieri, dai magazzini, operaj, macchinisti, apparatori,
accorsero in gran numero per assistere dietro di noi alla scena: una folla.
La belva s'era ritratta d'un balzo in fondo alla gabbia; inarcata, a testa
bassa. i denti digrignanti, le zampe artigliate, pronta all'assalto: terribile!
L'uomo la guatò, sbigottito; si voltò perplesso a cercare con gli occhi tra
noi Simone Pau.
- Suona! - gli gridò questi. - Non temere! Suona! Ti comprenderà!
E allora quello, come liberandosi con un tremendo sforzo da un incubo, levò
finalmente la testa, scrollandola, buttò a terra il cappellaccio sformato, si
passò una mano sui lunghi capelli arruffati, trasse il violino dalla vecchia
fodera di panno verde, e buttò via anche questa, sul cappello.
Qualche lazzo partì dagli operaj affollati dietro a noi, seguito da risa e
da commenti, mentre egli accordava il violino; ma un gran silenzio si fece
subito appena egli prese a sonare, dapprima un po' incerto, esitante, come se
si sentisse ferire dal suono del suo strumento non più udito da gran tempo;
poi, d'un tratto, vincendo l'incertezza, e forse i fremiti dolorosi, con alcuni
strappi energici. Seguì a questi strappi come un affanno a mano a mano
crescente, incalzante, di strane note aspre e sorde, un groviglio fitto, da cui
ogni tanto una nota accennava ad allungarsi, come chi tenti di trarre un
sospiro tra i singhiozzi. Alla fine questa nota si distese, si sviluppò,
s'abbandonò, liberata dall'affanno, in una linea melodica, limpida, dolcissima
e intensa, vibrante d'infinito spasimo: e una profonda commozione allora invase
noi tutti, che in Simone Pau si rigò di lagrime. Con le braccia levate egli
faceva cenno di star zitti, di non manifestare in alcun modo la nostra
ammirazione, perché nel silenzio quel bislacco straccione meraviglioso potesse
ascoltare la sua anima.
Non durò a lungo. Abbassò le mani, come esausto, col violino e l'archetto,
e si rivolse a noi col volto trasfigurato, bagnato di pianto, dicendo:
- Ecco...
Scoppiarono applausi fragorosi. Fu preso, portato in trionfo. Poi, condotto
alla prossima trattoria, non ostanti le preghiere e le minacce di Simone Pau,
bevve e s'ubriacò.
Polacco s'è morso un dito dalla rabbia, per non aver pensato di mandarmi
subito a prendere la macchinetta per fissare quella scena della sonata alla
tigre.
Come capisce bene tutto, sempre, Cocò Polacco! Io non potei rispondergli
perché pensavo agli occhi della signora Nestoroff, che aveva assistito alla
scena, come in un'estasi piena di sgomento.
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