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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio IntraText CT - Lettura del testo |
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I
Esco ora dalla stanza di Aldo Nuti. È quasi il tocco. La casa - dove passo la prima notte - dorme. Ha per me un alito nuovo, non ancor grato al mio respiro; aspetto di cose, sapor di vita, disposizione d'usi particolari, tracce d'abitudini ignote. Nel corridojo, appena richiuso l'uscio della stanza del Nuti, tenendo un fiammifero acceso tra le dita, ho visto davanti a me, vicinissima, enorme nell'altra parete, la mia ombra. Smarrito nel silenzio della casa, mi sentivo l'anima così piccola che quella mia ombra al muro, così grande, m'è sembrata l'immagine della paura. In fondo al corridojo, un uscio; davanti a quell'uscio, su la guida, un pajo di scarpette: quelle della signorina Luisetta. Mi sono fermato un momento a guardar la mia ombra mostruosa, che s'allungava verso quell'uscio e m'è sembrato che quelle scarpette fossero là per tener lontana la mia ombra. A un tratto, dietro quell'uscio, la vecchia cagnetta Piccinì, forse già con le orecchie tese, in guardia fin dal primo rumore dell'uscio schiuso, ha emesso due ròchi latrati. Al rumore non ha abbajato; ma ha sentito ch'io mi son fermato un momento; ha sentito arrivare il mio pensiero alla cameretta della sua padroncina, e ha abbajato. Eccomi nella mia nuova stanza. Ma non doveva esser questa. Quando sono venuto a portare le mie robe, Cavalena, davvero lietissimo d'avermi in casa, non solo per la viva simpatia e la grande confidenza che gli ho subito ispirato, ma forse anche perché spera più facile per mio mezzo l'entratura alla Kosmograph, m'aveva assegnato l'altra stanza più larga, più comoda, meglio addobbata. Certo né lui né la signora Nene han voluto e disposto il cambiamento. L'avrà voluto la signorina Luisetta, che con tanta attenzione e tanto sbigottimento questa mattina, andando via dalla Kosmograph, ascoltò in vettura il mio sommario ragguaglio sui casi del Nuti. Sì, è stata lei, senza dubbio. Me l'hanno or ora confermato quelle sue scarpette davanti all'uscio, su la guida del corridojo. Ne provo dispiacere, non per altro, ma per questo: che lo stesso, se questa mattina mi avessero fatto vedere tutt'e due le stanze, avrei lasciato quella per il Nuti, e avrei scelta questa per me. La signorina Luisetta l'ha indovinato così bene, che senza dirmene nulla ha tolto di là le mie robe e le ha passate qui. Certamente, se ella non l'avesse fatto, avrei provato dispiacere vedendo alloggiato qui, in questa stanza più piccola e meno comoda, il Nuti. Ma debbo pensare che ella ha voluto risparmiarmi questo dispiacere? Non posso. L'aver fatto lei, senza dirmene nulla, quello che avrei fatto io, m'offende, pur riconoscendo che doveva farsi così, anzi appunto perché riconosco che doveva farsi così. Ah, che effetto prodigioso fanno alle donne le lagrime negli occhi d'un uomo, massime se lagrime d'amore! Ma voglio essere giusto: l'hanno fatto anche a me. Mi ha tenuto di là circa quattro ore. Voleva seguitare a dire e a piangere: gliel'ho impedito, per pietà de' suoi occhi specialmente. Non ho mai veduto due occhi ridursi, per il troppo piangere, così. Dico male. Non per il troppo piangere. Forse poche lagrime (n'ha versate senza fine), ma forse poche soltanto sarebbero bastate a ridurgli ugualmente gli occhi in quello stato. Eppure è strano! Pare che non pianga lui. Per quel che dice, per quel che si propone di fare, non ha ragione né, certo, voglia di piangere. Le lagrime gli bruciano gli occhi, le gote, e perciò sa che piange; ma non sente il suo pianto. I suoi occhi piangono quasi per un dolore non suo, per un dolore quasi delle lagrime stesse. Il suo dolore è feroce e non vuole e sdegna quelle lagrime. Ma più strano ancora m'è sembrato questo: che quando invece a un certo punto, parlando, il suo sentimento s'è accostato - per così dire - alle lagrime, queste d'un tratto gli son venute meno. Mentre la voce gli s'inteneriva e gli tremava, gli occhi, al contrario - quegli occhi insanguati e disfatti poc'anzi dal pianto - gli sono diventati arsi e duri: feroci. Quel ch'egli dice e i suoi occhi non possono dunque andar d'accordo. Ma è lì, in quegli occhi e non in quel che dice, il suo cuore. E perciò di quegli occhi specialmente ho avuto pietà. Non dica e pianga; pianga e senta il suo pianto: è il meglio che possa fare. Mi giunge, a traverso la parete, il rumore de' suoi passi. Gli ho consigliato d'andare a letto, di provarsi a dormire. Dice che non può; che ha perduto il sonno, da tempo. Chi gliel'ha fatto perdere? Non il rimorso certamente, a stare a quel che dice. È tra i tanti fenomeni dell'anima umana uno de' più comuni e insieme de' più strani da studiare, questo della lotta accanita, rabbiosa, che ogni uomo, per quanto distrutto dalle sue colpe, vinto e disfatto nel suo cordoglio, s'ostina a durare contro la propria coscienza, per non riconoscere quelle colpe e non farsene un rimorso. Che le riconoscano gli altri e lo puniscano per esse, lo imprigionino, gl'infliggano i più crudeli supplizii e lo uccidano, non gl'importa; purché non le riconosca lui, contro la propria coscienza che pur gliele grida! Chi è lui? Ah, se ognuno di noi potesse per un momento staccar da sé quella metafora di se stesso, che inevitabilmente dalle nostre finzioni innumerevoli, coscienti e incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci; si accorgerebbe subito che questo lui è un altro, un altro che non ha nulla o ben poco da vedere con lui; e che il vero lui è quello che grida, dentro, la colpa: l'intimo essere, condannato spesso per tutta intera la vita a restarci ignoto! Vogliamo a ogni costo salvare, tener ritta in piedi quella metafora di noi stessi, nostro orgoglio e nostro amore. E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo, quando sarebbe così dolce abbandonarci vinti, arrenderci al nostro intimo essere, che è un dio terribile, se ci opponiamo ad esso; ma che diventa subito pietoso d'ogni nostra colpa, appena riconosciuta, e prodigo di tenerezze insperate. Ma questo sembra un negarsi, e cosa indegna d'un uomo; e sarà sempre così, finché crederemo che la nostra umanità consista in quella metafora di noi stessi. La versione che Aldo Nuti dà degli avvenimenti da cui è stato travolto - pare impossibile! - tende sopra tutto a salvare questa metafora, la sua vanità maschile, la quale, pur ridotta davanti a me in quello stato miserando, non vuole tuttavia rassegnarsi a confessare d'essere stata un giocattolo sciocco in mano a una donna: un giocattolo, un pagliaccetto, che la Nestoroff, dopo essersi divertita un po' a fargli aprire e chiudere in atto supplice le braccia, premendo con un dito la troppo appariscente molla a mantice sul petto, buttò via in un canto, fracassandolo. S'è rimesso sù, il pagliaccetto fracassato; la faccina, le manine di porcellana, ridotte una pietà: le manine senza dita, la faccina senza naso, tutta crepe, scheggiata; la molla a mantice del petto ha forato il giubbetto di lana rossa ed è scattata fuori, rotta; eppure, no, ecco; il pagliaccetto grida di no, che non è vero che quella donna gli ha fatto aprire e chiudere in atto supplice le braccia per riderne, e che, dopo averne riso, l'ha fracassato così. Non è vero! D'accordo con Duccella, d'accordo con nonna Rosa egli seguì dalla villetta di Sorrento a Napoli i due fidanzati, per salvare il povero Giorgio, troppo ingenuo e accecato dal fascino di quella donna. Non ci voleva mica molto a salvarlo! Bastava dimostrargli e fargli toccar con mano, che quella donna ch'egli voleva far sua sposandola, poteva esser sua, com'era stata d'altri, come sarebbe stata di chiunque, senza bisogno di sposarla. Ed ecco che, sfidato dal povero Giorgio, s'impegnò di fargli subito questa prova. Il povero Giorgio la credeva impossibile perché, al solito, per la tattica comunissima a tutte codeste donne, la Nestoroff a lui non aveva mai voluto concedere neanche il minimo favore, e a Capri la aveva veduta così sdegnosa di tutti, appartata e altera! Fu un tradimento orribile. Non già il suo, ma quello di Giorgio Mirelli! Aveva promesso che, avuta la prova, si sarebbe allontanato subito da quella donna: invece, s'uccise. Questa è la versione che Aldo Nuti vuol dare del dramma. Ma come, dunque? Il giuoco l'ha fatto lui, il pagliaccetto? e perché s'è fracassato così? se era un giuoco così facile? Via queste domande, e via ogni meraviglia. Qua bisogna far vista di credere. Non deve affatto scemare, ma anzi crescere la pietà per il prepotente bisogno di mentire di questo povero pagliaccetto, che è la vanità di Aldo Nuti: la faccina senza naso, le manine senza dita, la molla del petto rotta scattata fuori del giubbetto stracciato, lasciamolo mentire! Tanto, ecco, la menzogna gli serve per piangere di più. Non sono lagrime buone, perché egli non vuol sentirvi il suo dolore. Non le vuole e le sdegna. Vuol far altro che piangere, e bisognerà tenerlo d'occhio. Perché è venuto qua? Non ha da vendicarsi di nessuno, se il tradimento l'ha fatto Giorgio Mirelli, uccidendosi e gettando il suo cadavere tra la sorella e il fidanzato. Così gli ho detto. - Lo so - m'ha risposto. - Ma è pur lei, questa donna, la causa di tutto! Se lei non fosse venuta a turbare la giovinezza di Giorgio, ad adescarlo, a irretirlo con certe armi che veramente solo per un inesperto possono esser perfide, non perché non siano perfide in sé, ma perché uno come me, come lei, subito le riconosce per quel che sono: vipere, che si rendono innocue strappando i denti noti del veleno; ora io non mi troverei così: non mi troverei così! Ella vide subito in me il nemico, capisce? E mi volle mordere di furto. Fin da principio, io, apposta, le lasciai credere che le sarebbe stato facilissimo mordermi. Volevo che addentasse, appunto per strapparle quei denti. E ci riuscii. Ma Giorgio, Giorgio, Giorgio era avvelenato per sempre! Avrebbe dovuto farmi capire ch'era inutile ch'io mi provassi ormai a strappare i denti a quella vipera... - Ma che vipera, scusi! - non ho potuto tenermi dal fargli notare. - Troppa ingenuità per una vipera, scusi! Rivolgere a lei i denti così presto, così facilmente... Tranne che non l'abbia fatto per cagionare la morte di Giorgio Mirelli. - Forse! - E perché? Se già era riuscita nell'intento di farsi sposare? E non s'è subito arresa al suo giuoco? non s'è fatti strappare i denti prima d'ottenere lo scopo? - Ma non lo sospettava! - E che vipera, allora, via! Vuole che una vipera non sospetti? Avrebbe morso dopo, una vipera, non prima! Se ha morso prima, vuol dire che... o non era una vipera, o per Giorgio ha voluto perdere i denti. Scusi... no, aspetti... per carità, mi stia ad ascoltare... Le dico questo, perché... son d'accordo con lei, guardi... ella ha voluto vendicarsi, ma prima, soltanto in principio, di Giorgio. Questo lo credo; l'ho pensato sempre. - Vendicarsi di che? - Forse d'un affronto, che nessuna donna sopporta facilmente. - Ma che donna, colei! - E via, una donna, signor Nuti! Lei che le conosce bene, sa che sono tutte le stesse, specialmente su questo punto. - Guardi: Giorgio era tutto preso dalla sua arte, è vero? - Sì. - Trovò a Capri questa donna, che si prestò a essere oggetto di contemplazione per lui, per la sua arte. - Apposta, sì. - E non vide, non volle vedere in lei altro che il corpo, ma solo per carezzarlo su una tela co' suoi pennelli, col giuoco delle luci e dei colori. E allora ella offesa e indispettita, per vendicarsi, lo sedusse: sono d'accordo con lei! e, sedottolo, per vendicarsi ancora, per vendicarsi meglio, gli resistette, è vero? finché Giorgio, accecato, pur d'averla, le propose il matrimonio, la condusse a Sorrento dalla nonna, dalla sorella. - No! Lo volle lei! lo impose lei! - Va bene, sì; e potrei dire: affronto per affronto; ma no, io ora voglio stare a ciò che ha detto lei, signor Nuti! E ciò che ha detto lei mi fa pensare ch'ella abbia imposto a Giorgio d'esser condotta lì in casa della nonna e della sorella, aspettandosi che Giorgio si ribellasse a questa imposizione perché ella vi trovasse il pretesto di sciogliersi dall'impegno di sposarlo. - Sciogliersi? Perché? - Ma perché già aveva ottenuto lo scopo! La vendetta era raggiunta: Giorgio, vinto, accecato, preso di lei, del suo corpo, fino a volerla sposare! Questo le bastava, e non voleva più altro! Tutto il resto, le nozze, la convivenza con lui che certamente subito dopo si sarebbe pentito, sarebbero state l'infelicità per lei e per lui, una catena. E forse ella non ha pensato soltanto a sé; ha avuto anche pietà di lui! - Dunque lei crede? - Ma me lo fa creder lei, me lo fa pensar lei, che ritiene perfida questa donna! A stare a ciò che dice lei, signor Nuti, per una perfida non è logico ciò che ha fatto. Una perfida che vuole le nozze e prima delle nozze si dà a lei così facilmente... - Si dà a me? - ha gridato a questo punto, scattando, Aldo Nuti, messo dalla mia logica con le spalle al muro. - Chi le ha detto che si sia data a me? Io non l'ho avuta, non l'ho avuta... Crede ch'io abbia potuto pensare d'averla? Io dovevo avere soltanto la prova, che non sarebbe mancato per lei... una prova da mostrare a Giorgio! Sono rimasto per un momento sbalordito a mirarlo in bocca. - E quella vipera gliel'ha data subito? E lei ha potuto averla facilmente, questa prova? Ma dunque, ma dunque, scusi... Ho creduto che finalmente la mia logica avesse in pugno la vittoria così, che non sarebbe stato più possibile strappargliela. Devo ancora imparare, che proprio nel momento in cui la logica, combattendo con la passione, crede d'avere acciuffata la vittoria, la passione con una manata improvvisa gliela ristrappa, e poi a urtoni, a pedate, la caccia via con tutta la scorta delle sue codate conseguenze. Se quest'infelice, evidentissimamente raggirato da quella donna, per un fine che mi par d'aver indovinato, non poté neanche farla sua, e gli è rimasta perciò anche questa rabbia in corpo, dopo tutto quello che gli è toccato soffrire, perché quel pagliaccetto sciocco della sua vanità credette forse davvero in principio di poter facilmente giocare con una donna come la Nestoroff; che volete più ragionare? possibile indurlo ad andarsene? costringerlo a riconoscere che non avrebbe nessun motivo di cimentare un altr'uomo, di aggredire una donna che non vuol saperne di lui? Eppure... eppure ho cercato d'indurlo a partire, e gli ho domandato che voleva, infine, e che sperava da quella donna. - Non lo so, non lo so - m'ha gridato. - Deve stare con me, deve soffrire con me. Io non posso più farne a meno, io non posso più star solo, così. Ho cercato finora, ho fatto di tutto per vincere Duccella; ho messo tanti amici di mezzo; ma capisco che non è possibile. Non credono al mio strazio, alla mia disperazione. E ora io ho bisogno, bisogno d'aggrapparmi a qualcuno, di non essere più così solo. Lei lo capisce: impazzisco! impazzisco! So che non val nulla quella donna, ma le dà prezzo ora tutto quello che ho sofferto e soffro per lei. Non è amore, è odio, è il sangue che s'è versato per lei! E poiché s'è voluto affogare in questo sangue per sempre la mia vita, bisogna ora che vi stiamo tuffati tutti e due insieme, aggrappati, io e lei, non io solo! Non posso più star solo così! Sono uscito dalla sua stanza, senza neanche il piacere di avergli offerto uno sfogo che potesse alleggerirgli un po' il cuore. Ed ecco che io ora posso aprire la finestra e mettermi a contemplare il cielo, mentr'egli di là si strazia le mani e piange, divorato dalla rabbia e dal cordoglio. Se rientrassi di là, nella sua stanza, e gli dicessi con gioja: “Signor Nuti, sa? ci sono le stelle! Lei certo se n'è dimenticato; ma ci sono le stelle!”, che avverrebbe? A quanti uomini, presi nel gorgo d'una passione, oppure oppressi, schiacciati dalla tristezza, dalla miseria, farebbe bene pensare che c'è, sopra il soffitto, il cielo, e che nel cielo ci sono le stelle. Anche se l'esserci delle stelle non ispirasse loro un conforto religioso. Contemplandole, s'inabissa la nostra inferma piccolezza, sparisce nella vacuità degli spazii, e non può non sembrarci misera e vana ogni ragione di tormento. Ma bisognerebbe avere in sé, nel momento della passione, la possibilità di pensare alle stelle. Può averla uno come me, che da un pezzo guarda tutto e anche se stesso come da lontano. Se entrassi di là a dire al signor Nuti che nel cielo ci sono le stelle, mi griderebbe forse di salutargliele cacciandomi via, a modo di un cane. Ma posso io ora, come vorrebbe Polacco, costituirmi suo guardiano? M'immagino come tra poco mi guarderà Carlo Ferro, vedendomi alla Kosmograph con lui accanto. E Dio sa, che non ho alcuna ragione d'esser più amico dell'uno che dell'altro. Io vorrei seguitare a fare, con la consueta impassibilità, l'operatore. Non m'affaccerò alla finestra. Ahimè, da che è venuto alla Kosmograph quel maledetto Zeme, vedo anche nel cielo una meraviglia da cinematografo.
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