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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio IntraText CT - Lettura del testo |
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II
Un biglietto della Nestoroff, questa mattina alle otto (inatteso e misterioso invito a recarmi da lei insieme con la signorina Luisetta prima d'andare alla Kosmograph) m'ha fatto rimandare la partenza. Sono rimasto un pezzo col biglietto in mano, non sapendo che pensarne. La signorina Luisetta, già pronta per uscire, è passata per il corridojo davanti all'uscio della mia camera; l'ho chiamata. Corse con gli occhi alla firma; si fece, al solito, rossa rossa, poi pallida pallida; finito di leggere, fissò gli occhi con uno sguardo ostile e una contrazione di dubbio e di timore nella fronte, e domandò con voce smorta: - Che vorrà? Aprii le mani, non tanto per non saper che rispondere, quanto per conoscere prima che cosa ne pensasse lei. - Io non vado, - disse, scombujandosi. - Che può volere da me? - Avrà saputo, - le risposi, - che egli... il signor Nuti è alloggiato qui, e... - E...? - Vorrà forse dire qualcosa, non so... per lui... - A me? - M'immagino... anche a lei, se la prega d'accompagnarsi con me... Represse un fremito nella persona; non riuscì a reprimerlo nella voce: - E che c'entro io? - Non so; non c'entro neanche io, - le feci notare. - Ci vuole tutti e due... - E che può avere da dire a me... per il signor Nuti? Mi strinsi nelle spalle e la guardai con fredda fermezza per richiamarla in sé e significarle che lei, per quanto si riferiva propriamente alla sua persona - lei come signorina Luisetta - non avrebbe dovuto aver nessuna ragione di sentire quell'avversione, quel ribrezzo per una signora, della cui simpatia s'era prima tanto compiaciuta. Comprese; si turbò maggiormente. - Suppongo, - soggiunsi, - che se vuol parlare anche con lei, sarà a fin di bene; anzi certamente sarà così. Lei s'aombra... - Perché... perché non riesco a... a immaginare... si buttò a dire, prima esitante, poi con impeto, facendosi in volto di bragia, - che cosa possa avere da dire a me, anche così, come lei suppone, a fin di bene. Io... - Estranea, come me, al caso, è vero? - attaccai subito, ostentando una maggiore freddezza. - Ebbene, forse ella crede, che lei possa giovare in qualche modo... - No, no; estranea, va bene, - s'affrettò a rispondere, urtata. - Voglio restare estranea e non aver nessuna relazione, per ciò che si riferisce al signor Nuti, con codesta signora. - Faccia come crede - dissi. - Andrò io solo. Non c'è bisogno che la avverta, che sarà prudente non far parola al Nuti di questo invito. - Oh, certo! - fece. E si ritirò. Sono rimasto a lungo a riflettere, col biglietto in mano, su l'atteggiamento da me preso, senza volerlo, in questo breve dialogo con la signorina Luisetta. Le benigne intenzioni da me attribuite alla Nestoroff non avevano altra ragione, che il reciso rifiuto della signorina Luisetta d'accompagnarsi con me in una manovra segreta, ch'ella istintivamente ha sentito diretta contro il Nuti. Io ho difeso la Nestoroff per il solo fatto che questa, invitando la signorina Luisetta ad andare in casa sua insieme con me, mi è parso intendesse staccarla dal Nuti, e farla compagna a me, supponendola mia amica. Ora ecco, invece di staccarsi dal Nuti, la signorina Luisetta si staccava da me e mi faceva andar solo dalla Nestoroff. Neanche per un momento s'era fermata a considerare ch'era stata invitata insieme con me; l'idea d'essermi compagna non le era apparsa affatto; non aveva visto che il Nuti, non aveva pensato che a lui; e le mie parole certamente non le avevano prodotto altro effetto che quello di mettermi dalla parte della Nestoroff contro il Nuti e, per conseguenza, anche contro lei. Se non che, mancato adesso lo scopo per cui avevo attribuito a quella le intenzioni benigne, ecco, ricadevo nella perplessità di prima e per giunta in preda a una sorda irritazione e mi sentivo diffidentissimo anch'io contro la Nestoroff. L'irritazione era per la signorina Luisetta, perché, mancato lo scopo, mi vedevo costretto a riconoscere ch'ella in fondo aveva ragione di diffidare. Insomma, m'appariva a un tratto evidente, che mi bastava aver compagna la signorina Luisetta per vincere ogni diffidenza. Senza di lei, la diffidenza ora riprendeva anche me, ed era quella di chi sa di potere da un passo all'altro esser colto a un laccio preparato con sottilissima astuzia. Con quest'animo sono andato dalla Nestoroff, io solo. Ma pur mi spingeva una curiosità ansiosa di ciò che m'avrebbe detto e il desiderio di vederla da vicino, in casa, benché non m'aspettassi né da lei né dalla casa alcuna rivelazione d'intimità. Sono entrato in molte case, dacché ho perduto la mia, e in quasi tutte, aspettando che si presentasse il padrone o la padrona di casa, ho provato uno strano senso di fastidio e di pena insieme, alla vista dei mobili più o meno ricchi, disposti con arte, come in attesa d'una rappresentazione. Questa pena, questo fastidio io li sento più degli altri, forse, perché m'è rimasto inconsolabile in fondo all'anima il rimpianto della mia casetta all'antica, dove tutto spirava l'intimità, dove i mobilucci vecchi, amorosamente curati, invitavano alla schietta confidenza familiare e parevano contenti di serbar le impronte dell'uso che ne avevamo fatto, perché in quelle impronte, se pure li avevano un po' logorati, un po' gualciti, erano i ricordi della vita vissuta con essi, a cui essi avevano partecipato. Ma veramente non riesco a comprendere come non debbano dare, se non proprio pena, fastidio certi mobili coi quali non osiamo prenderci nessuna confidenza, perché ci sembra stieno lì ad ammonire con la loro rigida gracilità elegante, che la nostra noja, il nostro dolore, la nostra gioja non debbano né lasciarsi andare, né smaniare o dibattersi, né sussultare, ma esser contenuti nelle regole della buona creanza. Case fatte per gli altri, in vista della parte che vogliamo rappresentare in società; case d'apparenza, dove i mobili attorno possono anche farci vergognare, se per caso in un momento ci sorprendiamo in costume o in atteggiamento non confacenti a quest'apparenza e fuori della parte che dobbiamo rappresentare. Sapevo che la Nestoroff abitava in un ricco quartierino ammobiliato in via Mecenate. Fui introdotto dalla cameriera (senza dubbio preavvisata della mia visita) nel salotto; ma il preavviso aveva un po' sconcertato la cameriera, che s'aspettava di vedermi insieme con una signorina. Voi, per la gente che non vi conosce, che è tanta, non avete altra realtà che quella dei vostri calzoni chiari o del vostro soprabito marrone o dei vostri baffi all'inglese. Io per la cameriera ero uno che doveva venire insieme con una signorina. Senza la signorina potevo essere un altro. Ragion per cui dapprima fui lasciato davanti alla porta. - Solo? E la vostra amicuccia? - domandò la Nestoroff poco dopo nel salotto. Ma la domanda, arrivata a metà, tra vostra e amicuccia cadde, o piuttosto, smorì in una impreveduta alterazione di sentimento. L'amicuccia non fu quasi proferita. Quest'impreveduta alterazione di sentimento le fu cagionata dal pallore del mio volto sbalordito, dallo sguardo de' miei occhi sbarrati in uno stupore quasi truce. Guardandomi, ella comprese subito il perché del mio pallore e del mio sbalordimento, e subito diventò pallidissima anche lei; gli occhi le s'intorbidarono stranamente, le mancò la voce e tutto il suo corpo mi tremolò davanti quasi una larva. L'assunzione di quel suo corpo a una vita prodigiosa, in una luce da cui ella neppure in sogno avrebbe potuto immaginare di essere illuminata e riscaldata, in un trasparente, trionfale accordo con una natura attorno, di cui certo gli occhi suoi non avevano mai veduto il tripudio dei colori, era sei volte ripetuta, per miracolo d'arte e d'amore, in quel salotto, in sei tele di Giorgio Mirelli. Fissata lì per sempre, in quella realtà divina ch'egli le aveva data, in quella divina luce, in quella divina fusione di colori, la donna che mi stava davanti che cos'era più ormai? in che laido smortume, in che miseria di realtà era ormai caduta? E aveva potuto osare di tingersi di quello strano color cùpreo i capelli, che lì nelle sei tele, davano col loro colore naturale tanta schiettezza d'espressione al suo volto intento, dal sorriso vago, dallo sguardo perduto nella malìa d'un sogno triste lontano? Ella si fece umile, si restrinse come per vergogna in sé, sotto il mio sguardo che certo esprimeva uno sdegno penoso. Dal modo con cui mi guardò, dalla contrazione dolorosa delle ciglia e delle labbra, da tutto l'atteggiamento della persona compresi ch'ella non solo sentiva di meritarsi il mio sdegno, ma lo accettava e me n'era grata, perché in questo sdegno, da lei condiviso, assaporava il castigo del suo delitto e della sua caduta. S'era guastata, s'era ritinti i capelli, s'era ridotta in quella realtà miserabile, conviveva con un uomo grossolano e violento, per fare strazio di sé: ecco, era chiaro; e voleva che nessuno ormai le s'accostasse per rimuoverla da quel disprezzo di sé, a cui s'era condannata, in cui riponeva il suo orgoglio, perché solo in questa ferma e fiera intenzione di disprezzarsi si sentiva ancor degna del sogno luminoso, nel quale per un momento aveva respirato e di cui le restava la testimonianza viva e perenne nel prodigio di quelle sei tele. Non gli altri, non il Nuti, ma lei, lei sola, da sé, facendo una disumana violenza a se stessa, s'era strappata da quel sogno, n'era precipitata. Perché? Ah, la ragione, forse, era da cercare lontano, altrove. Chi sa le vie dell'anima? I tormenti, gli oscuramenti, le improvvise, funeste risoluzioni? La ragione, forse, si doveva cercare nel male che gli uomini le avevano fatto fin da bambina, nei vizii in cui s'era perduta durante la prima giovinezza randagia, e che nel suo stesso concetto le avevano offeso il cuore fino a non sentirselo più degno che un giovinetto col suo amore lo riscattasse e lo nobilitasse. Di fronte a questa donna così caduta, certo infelicissima e dalla infelicità sua resa nemica a tutti, e, più, a se medesima, che avvilimento, che nausea m'assalì d'improvviso della volgare meschinità dei casi in cui mi vedevo mescolato, della gente con cui m'ero messo a trattare, dell'importanza che avevo data e davo a loro, alle loro azioni, ai loro sentimenti! Come m'apparve stupido quel Nuti e grottesco nella sua tragica fatuità di figurino di moda tutto gualcito e brancicato nell'inamidatura imbrattata di sangue! Stupidi e grotteschi quei due Cavalena, marito e moglie! Stupido il Polacco, con quelle arie di condottiero invincibile! E stupida sopra tutto la parte mia, la parte che m'ero assunta di consolatore da un canto, di guardiano dall'altro e, in fondo all'anima, di salvatore per forza d'una povera piccina, a cui il triste e buffo disordine della sua famiglia aveva anche fatto assumere una parte quasi identica alla mia: cioè di salvatrice in ombra d'un giovine che non voleva esser salvato! Mi sentii d'un tratto da questa nausea alienato da tutti, da tutto, anche da me stesso, liberato e come vôtato d'ogni interessamento per tutto e per tutti, ricomposto nel mio ufficio di manovratore impassibile d'una macchinetta di presa, ridominato soltanto dal mio primo sentimento, che cioè tutto questo fragoroso e vertiginoso meccanismo della vita, non può produrre ormai altro che stupidità. Stupidità affannose e grottesche! Che uomini, che intrecci, che passioni, che vita, in un tempo come questo? La follia, il delitto, o la stupidità. Vita da cinematografo! Ecco qua: questa donna che mi stava davanti, coi capelli di rame. Là, nelle sei tele, l'arte, il sogno luminoso d'un giovinetto che non poteva vivere in un tempo come questo. E qua, la donna, caduta da quel sogno; caduta dall'arte nel cinematografo. Sù, dunque una macchinetta da girare! Ci sarà un dramma qui? Ecco la protagonista.
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