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Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio

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  • Quaderno settimo
    • III
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III

 

Siamo, se Dio vuole, alla fine. Non manca più, ormai, che l'ultimo quadro dell'uccisione della tigre.

La tigre: ecco, preferisco, se mai, costernarmi di lei; e vado a farle una visita, l'ultima, dinanzi alla gabbia.

S'è abituata a vedermi, la bella belva, e non si smuove. Solo aggrotta un po' le ciglia, per fastidio; ma sopporta la mia vista insieme col peso di questo silenzio di sole, grave, attorno, che qua nella gabbia s'impregna di forte lezzo ferino. Il sole entra nella gabbia ed essa socchiude gli occhi forse per sognare, forse per non vedersi addosso le liste d'ombra projettate dalle sbarre di ferro. Ah, dev'essere tremendamente seccata anche lei; seccata anche di questa mia pietà; e credo che, per farla cessare con un giusto compenso, volentieri mi divorerebbe. Questo desiderio, ch'essa riconosce per via di quelle sbarre inattuabile, la fa sospirare profondamente; e poiché se ne sta lunga sdrajata, col capo languido abbandonato su una zampa, vedo al sospiro levarsi una nuvoletta di polvere dal tavolato della gabbia. Mi fa proprio pena questo sospiro, pure intendendo perché essa lo ha emesso: c'è il riconoscimento doloroso della privazione a cui l'hanno condannata del suo diritto naturale di divorarsi l'uomo, ch'essa ha tutta la ragione di considerare suo nemico.

- Domani, - le dico. - Domattina, cara, codesto supplizio finirà. È vero che codesto supplizio è ancora una cosa per te, e che, quando sarà finito, per te non sarà più niente. Ma tra codesto supplizio e niente, forse meglio niente! Così, lontana dai tuoi selvaggi luoghi, senza poter sbranare né far più paura a nessuno, che tigre sei tu? Senti, senti... Preparano di la gabbia grande... Tu sei già avvezza a sentire queste martellate, e non ci fai più caso. Vedi, in questo sei più fortunata dell'uomo: l'uomo può pensare, udendo le martellate: “Ecco sono per me; sono quelle del fabbro che mi sta apparecchiando la cassa”. Tu già ci sei, nella cassa, e non lo sai: sarà una gabbia molto più grande di questa; e avrai la consolazione d'un po' di colore locale anche qui: figurerà un pezzo di bosco. La gabbia, ove ora stai, sarà trasportata di e accostata fino a farla combaciare con quella. Un macchinista salirà qua, sul cielo di questa, e ne tirerà lo sportello, mentre un altro macchinista tirerà lo sportello dell'altra; e tu allora di fra i tronchi degli alberi t'introdurrai guardinga e meravigliata. Ma avvertirai subito un ticchettìo curioso. Niente! Sarò io, che girerò sul treppiedi la macchinetta; sì, dentro la gabbia anch'io, con te; ma tu non badare a me! vedi? appostato un po' innanzi a me c'è un altro, un altro che prende la mira e ti spara, ah! eccoti giù, pesante, fulminata nello slancio... Mi accosterò; farò cogliere senza più pericolo alla macchinetta i tuoi ultimi tratti, e addio!

Se finirà così...

Questa sera, uscendo dal Reparto del Positivo, ove, per la premura che fa il Borgalli, ho dato una mano anch'io per lo sviluppo e la legatura dei pezzi di questo film mostruoso, mi son veduto venire incontro Aldo Nuti per accompagnarsi insolitamente con me fino a casa. Ho notato subito che si studiava, o meglio, si sforzava di non dare a vedere che aveva qualche cosa da dirmi.

- Va a casa?

- Sì.

- Anch'io.

A un certo punto mi domandò:

- È stato oggi alla Sala di prova?

- No. Ho lavorato giù, al Reparto.

Silenzio per un tratto. Poi ha tentato con pena un sorriso, che voleva parere di compiacimento:

- Si sono provati i miei pezzi. Hanno fatto buona impressione a tutti. Non avrei immaginato che potessero riuscire così bene. Uno specialmente. Avrei voluto che lei lo vedesse.

- Quale?

- Quello che mi presenta solo, per un tratto, staccato dal quadro, ingrandito, con un dito così su la bocca, in atto di pensare. Forse dura un po' troppo... viene troppo avanti la figura... con quegli occhi... Si possono contare i peli delle ciglia. Non mi pareva l'ora che sparisse dallo schermo.

Mi voltai a guardarlo; ma mi sfuggì subito in un'ovvia considerazione:

- Già! - disse. - È curioso l'effetto che ci fa la nostra immagine riprodotta fotograficamente, anche in un semplice ritratto, quando ci facciamo a guardarla la prima volta. Perché?

- Forse, - gli risposi, - perché ci sentiamo fissati in un momento che già non è più in noi; che resterà, e che si farà man mano sempre più lontano.

- Forse! - sospirò. - Sempre più lontano per noi...

- No, - soggiunsi, - anche per l'immagine. L'immagine invecchia anch'essa, tal quale come invecchiamo noi a mano a mano. Invecchia, pure fissata sempre in quel momento; invecchia giovane, se siamo giovani, perché quel giovane diviene d'anno in anno sempre più vecchio con noi, in noi.

- Non capisco.

- È facile intenderlo, se ci pensa un poco. Guardi: il tempo, da , da quel ritratto, non procede più innanzi, non s'allontana sempre più d'ora in ora con noi verso l'avvenire; pare che resti fissato, ma s'allontana anch'esso, in senso inverso; si sprofonda sempre più nel passato, il tempo. Per conseguenza l'immagine, , è una cosa morta che col tempo s'allontana man mano anch'essa sempre più nel passato: e più è giovane e più diviene vecchia e lontana.

- Ah già, così... Sì, sì, - disse. - Ma c'è qualche cosa di più triste. Un'immagine invecchiata giovane a vuoto.

- Come, a vuoto?

- L'immagine di qualcuno morto giovane.

Mi voltai di nuovo a guardarlo; ma egli soggiunse subito:

- Ho un ritratto di mio padre, morto giovanissimo, circa all'età mia; tanto che io non l'ho conosciuto. L'ho custodita con reverenza, quest'immagine, benché non mi dica nulla. S'è invecchiata anch'essa, sì, profondandosi, come lei dice, nel passato. Ma il tempo che ha invecchiato l'immagine, non ha invecchiato mio padre; mio padre non l'ha vissuto questo tempo. E si presenta a me, a vuoto, dal vuoto di tutta questa vita che per lui non è stata; si presenta a me con la sua vecchia immagine di giovane che non mi dice nulla, che non può dirmi nulla, perché non sa neppure ch'io ci sia. E difatti è un ritratto ch'egli si fece prima di sposare; ritratto, dunque, di quando non era mio padre. Io in lui, , non ci sono, come tutta la mia vita è stata senza di lui.

- È triste...

- Triste, sì. Ma in ogni famiglia, nei vecchi album di fotografie, sui tavolinetti davanti al canapè dei salotti provinciali, pensi quante immagini ingiallite di gente che non dice più nulla, che non si sa più chi sia stata, che abbia fatto, come sia morta...

D'improvviso cambiò discorso per domandarmi, accigliato:

- Quanto può durare una pellicola?

Non si rivolgeva più a me, come a uno con cui avesse piacere di conversare; ma a me come operatore. E il tono della voce era così diverso, così cangiata l'espressione del volto, ch'io sentii di nuovo, a un tratto, sommuoversi dentro di me il dispetto che covo in fondo da un pezzo contro tutto e contro tutti. Perché voleva sapere quanto può durare una pellicola? S'era accompagnato con me per informarsi di questo? o per il gusto di farmi spavento, lasciandomi trapelare che intendeva di compiere qualche sproposito il giorno appresso, così che di quella passeggiata dovesse restarmi un tragico ricordo o un rimorso?

Mi sorse la tentazione di piantarmi su due piedi e di gridargli in faccia:

- Oh sai, caro? Con me la puoi smettere, perché di te non me n'importa proprio nulla! Tu puoi far tutte le pazzie che ti parrà e piacerà, questa sera, domani: io non mi commuovo! Mi domandi forse quanto può durare una pellicola per farmi pensare che tu lasci di te quella tua immagine col dito su la bocca? E credi forse di dover riempire e spaventare tutto il mondo con quella tua immagine ingrandita, nella quale si possono contare i peli delle ciglia? Ma che vuoi che duri una pellicola?

Scrollai le spalle e gli risposi:

- Secondo l'uso che se ne fa.

Anche lui dal tono della mia voce, cangiato, comprese certo cangiata la disposizione del mio animo verso di lui, e mi guardò allora in un modo che mi fece pena.

Ecco: egli era qua ancora su la terra un piccolo essere. Inutile, quasi nullo; ma era, e m'era accanto, e soffriva. Pure lui soffriva, come tutti gli altri, della vita che è il vero male di tutti. Per non degne ragioni ne soffriva sì lui; ma di chi la colpa se così piccolo era nato? Anche così piccolo soffriva e la sua sofferenza era grande per lui, comunque indegna... Era della vita! per uno dei tanti casi della vita, che s'era abbattuto su lui per togliergli tutto quel poco che aveva in sé e schiantarlo e distruggerlo! Ora era qua, ancora accanto a me, in una sera di giugno, di cui non poteva respirare la dolcezza; domani forse, poiché la vita gli s'era così voltata dentro, non sarebbe stato più: quelle sue gambe non le avrebbe più mosse per camminare; non lo avrebbe più veduto quel viale per cui andavamo; e non se le sarebbe più calzate al piede da sé quelle belle scarpette verniciate e quei calzini di seta, e né più si sarebbe, anche in mezzo alla disperazione, compiaciuto ogni mattina, davanti allo specchio dell'armadio, dell'eleganza del suo abito inappuntabile su la bella persona svelta ch'io potevo toccare, ecco, ancora viva, sensibile, accanto a me.

- Fratello...

No: non gli dissi questa parola. Si sentono certe parole, in un momento fuggevole: non si dicono. Gesù poté dirle, che non vestiva come me e non faceva come me l'operatore. In una umanità che prende diletto d'uno spettacolo cinematografico e ammette in sé un mestiere come il mio, certe parole, certi moti dell'animo diventano ridicoli.

- Se dicessi fratello a questo signor Nuti, - pensai, - egli se n'offenderebbe; perché... sì, avrò potuto fargli un po' di filosofia su le immagini che invecchiano, ma che sono io per lui? Un operatore: una mano che gira una manovella.

Egli è un “signore”, con la follia forse già dentro la scatoletta del cranio, con la disperazione in cuore, ma un riccosignore titolato” che si ricorda bene d'avermi conosciuto studentello povero, umile ripetitore di Giorgio Mirelli nella villetta di Sorrento. Vuol tenere la distanza tra me e lui, e mi obbliga a tenerla anch'io, ora, tra lui e me: quella che il tempo e la professione mia hanno stabilito. Tra lui e me, la macchinetta.

- Scusi, - mi domandò, poco prima d'arrivare a casa, - domani come farà lei a prendere la scena dell'uccisione della tigre?

- È facile, - risposi. - Starò dietro di lei.

- Ma non ci saranno i ferri della gabbia? L'ingombro delle piante?

- Per me, no. Starò dentro la gabbia con lei.

Si fermò a guardarmi, sorpreso:

- Dentro la gabbia anche lei?

- Certo, - risposi placidamente.

- E se... se io fallissi il colpo?

- So che lei è un tiratore provetto. Ma, del resto, poco male. Tutti gli attori, domani, staranno attorno alla gabbia ad assistere alla scena. Parecchi saranno armati e pronti a sparare anch'essi.

Stette un po' aggrondato a pensare, come se questa notizia lo contrariasse.

- Non spareranno mica prima di me, - poi disse.

 - No, certo. Spareranno, se ce ne sarà bisogno.

- Ma allora, - domandò, - perché quel signore ... quel signor Ferro aveva messo avanti tutte quelle pretese, se non c'è veramente nessun pericolo?

- Perché col Ferro questi altri, fuori della gabbia, armati, forse non ci sarebbero stati.

- Ah, dunque ci sono per me? Hanno preso questa misura di precauzione per me? È ridicolo! Chi l'ha presa? L'ha forse presa lei?

- Io no. Che c'entro io?

- Come lo sa, allora?

- L'ha detto Polacco.

- L'ha detto a lei? Dunque, l'ha presa Polacco? Ah, domani mattina mi sentirà! Io non voglio, ha capito? io non voglio!

- Lo dice a me?

- Anche a lei!

- Caro signore, creda pure che a me non fa né caldofreddo: colpisca o fallisca il colpo; faccia dentro la gabbia tutte le pazzie che vuole: io non mi commuovo, stia sicuro. Qualunque cosa accada, seguiterò impassibile a girar la macchinetta. Se lo tenga bene in mente!

 




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