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Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio

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  • Quaderno primo
    • V
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V

 

Me lo mostrò Simone Pau, la mattina appresso, quando ci levammo dalla branda. Non descriverò quello stanzone del dormitorio appestato da tanti fiati, nella squallida luce dell'alba, né l'esodo di quei ricoverati, che scendevano irti e rabbuffati dal sonno nei lunghi càmici bianchi, con le pantofole di tela ai piedi e la tèssera in mano, giù allo spogliatojo, per ritirare a turno i loro panni.

Uno era in mezzo a questi, che fra gli sgonfii del bianco accappatojo teneva stretto sotto il braccio un violino, chiuso nella fodera di panno verde, logora, sudicia, stinta, e se n'andava inarcocchiato e tenebroso, come assorto a guardarsi i peli spioventi delle foltissime sopracciglia aggrottate.

- Amico! amico! - lo chiamò Simone Pau. Quegli si fece avanti, tenendo il capo chino e sospeso, come se gli pesasse enormemente il naso rosso e carnuto; e pareva dicesse, avanzandosi:

“Fate largo! fate largo! Vedete come la vita può ridurre il naso d'un uomo?”

Simone Pau gli s'accostò; amorevolmente con una mano gli sollevò il mento; gli batté l'altra su la spalla, per rinfrancarlo, e ripeté:

- Amico mio!

Poi, rivolgendosi a me:

- Serafino - disse, ti presento un grande artista. Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso; ma non importa: è un grande artista. Ammìralo: qua, col suo Dio sotto il braccio! Potrebbe essere una scopa: è un violino.

Mi voltai a osservar l'effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto. Impassibile. E Simone Pau seguitò:

- Un violino, per davvero. E non lo lascia mai. Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati. Ma non c'è pericolo. Càvalo fuori amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire.

Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino.

Simone Pau riprese, rivolto a me:

- Vedi? Te lo mostra. Grande concessione di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono, lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata. Di' tu, amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?

L'uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.

Simone Pau gliela chiarì:

- Che ne facesti della tua tipografia?

Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.

- La trascurò, - disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. - La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa sonava nelle osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava poi beveva. Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel tanto che gli bisognava per spegnare il violino e ritornava a sonare nelle osterie. Ma senti che cosa gli capitò una volta, per cui... capisci? gli si è un po' alterata la... La... non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto.

L'uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.

- Gli capitò questo - seguitò Simone Pau. - Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia. “Non c'è posto; mi dispiace,” gli dice costui. E l'amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare. - “Aspetta, - dice. - Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio... Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno...” -. Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto speciale silenzioso; e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype perfezionata, senza complicazioni d'assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si ruguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. “Fa tutto da sé - dice il proto al mio amico. - Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare.” Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d'un mozzo di stalla... Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d'aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov'è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l'esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità. Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d'un giornale, tra le offerte d'impiego, quella d'un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d'un violino e d'un clarinetto per la sua orchestrina esterna. Subito il mio amico accorre: si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio. Ebbene: si trova davanti un'altra macchina, un pianoforte automatico, un cosidetto piano-melodico. Gli dicono: - “Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì”. Capisci? Un violino, nelle mani d'un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell'altra macchina lì. L'anima, che muove e guida le mani di quest'uomo, e che or s'abbandona nelle cavate dell'archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere.

Ne è uscito, come lo vedi.

Beve, e non suona più.

 




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