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Luigi Pirandello
Quaderni di Serafino Gubbio

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  • Quaderno quinto
    • IV
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IV

 

Come sono sciocchi tutti coloro che dichiarano la vita un mistero, infelici che vogliono con la ragione spiegarsi quello che con la ragione non si spiega!

Porsi davanti la vita come un oggetto da studiare, è assurdo, perché la vita, posta davanti così, perde per forza ogni consistenza reale e diventa un'astrazione vuota di senso e di valore. E com'è più possibile spiegarsela? L'avete uccisa. Potete, tutt'al più, farne l'anatomia.

La vita non si spiega; si vive.

La ragione è nella vita; non può esserne fuori. E la vita non bisogna porsela davanti, ma sentirsela dentro, e viverla. Quanti, usciti da una passione, come si esce da un sogno, non si domandano:

- Io? com'ho potuto esser così? far questo?

Non se lo sanno più spiegare; come non sanno spiegarsi che altri possa dare senso e valore a certe cose che per essi non ne hanno più nessuno o non ne hanno ancora. La ragione, che è in quelle cose, la cercano fuori. Possono trovarla? Fuori della vita non c'è nulla. Avvertire questo nulla, con la ragione che si astrae dalla vita, è ancora vivere, è ancora un nulla nella vita: un sentimento di mistero: la religione. Può essere disperato, se senza illusioni; può placarsi rituffandosi nella vita, non più di qua, ma di là, in quel nulla, che diventa subito tutto.

Com'ho capito bene queste cose in pochi giorni, da che sento veramente! Dico, da che sento anche me, perché gli altri li ho sentiti sempre in me, e m'è stato facile perciò spiegarmeli e compatirli.

Ma il sentimento che ho di me, in questo momento, è amarissimo.

Per causa vostra, signorina Luisetta, che pur siete tanto pietosa! Ma appunto perché siete così pietosa. Non ve lo posso dire, non ve lo posso far capire. Non vorrei dirmelo, non vorrei capirlo neanche io. Ma no, io non sono più una cosa, e questo mio silenzio non è più silenzio di cosa. Volevo farlo avvertire agli altri, questo silenzio, ma ora lo soffro io, tanto!

Séguito, pur non di meno, ad accogliervi dentro tutti. Sento però che ora mi fanno male tutti quelli che vi entrano, come in un luogo di sicura ospitalità. Il mio silenzio vorrebbe chiudersi sempre di più attorno a me.

Ecco qua, intanto, Cavalena che ci s'è allogato, pover'uomo, come a casa sua. Viene, appena può, a riparlarmi con sempre nuovi argomenti, o per futilissimi pretesti, della sua sciagura. Mi dice che non è possibile, a causa della moglie, tenere ancora alloggiato qua il Nuti, e che bisognerà trovargli posto altrove, appena rimesso. Due drammi, uno accanto all'altro, non è possibile tenerli. Specialmente perché il dramma del Nuti è un dramma di passione, di donne... Cavalena ha bisogno d'inquilini giudiziosi e composti. Pagherebbe, perché tutti gli uomini fossero serii, dignitosi, intemerati e godessero un'incontrastata fama d'illibatezza, sotto cui schiacciare il mal'animo della moglie accanito contro tutto il genere mascolino. Gli tocca ogni sera pagar la pena - il fio, dice lui - di tutte le malefatte degli uomini, registrate nella cronaca dei giornali, come se fosse lui l'autore o il complice necessario d'ogni seduzione, d'ogni adulterio.

- Vedi? - gli grida la moglie, con l'indice appuntato sul fatto di cronaca: - Vedi di che cosa siete capaci vojaltri?

E invano il poveretto si prova a farle osservare che, in ogni caso d'adulterio, per ogni uomo malvagio che tradisca la moglie, bisogna pure che ci sia una donna malvagia complice del tradimento. Crede d'aver trovato un argomento vittorioso, Cavalena, e invece si vede davanti la bocca della signora Nene accomodata ad O col dito dentro, nel solito gesto che significa:

- Sciocco!

Bella logica! Si sa! E non odia difatti la signora Nene anche tutto il genere femminino?

Trascinato dalle argomentazioni fitte, incalzanti di quella terribile pazzia ragionante che non s'arresta di fronte ad alcuna deduzione, egli si trova sempre, alla fine, smarrito o sbalordito, in una situazione falsa, da cui non sa più come uscire. Ma per forza! Se è costretto ad alterare, a complicare le cose più ovvie e naturali, a nascondere gli atti più semplici e più comuni: una conoscenza, una presentazione, un incontro fortuito, uno sguardo, un sorriso, una parola, nei quali la moglie sospetterebbe chi sa quali segrete intese e tranelli; per forza, anche discutendo con lei astrattamente, debbono venir fuori incidenti, contraddizioni, che a un tratto, inopinatamente, lo scoprono e lo rappresentano, con tutta l'apparenza della verità, bugiardo e impostore. Scoperto, preso nel suo stesso inganno innocente, ma che egli medesimo ormai vede che non può parer più tale agli occhi della moglie; esasperato, con le spalle al muro, contro l'evidenza stessa, s'ostina tuttavia a negare, ed ecco che, tante volte, per nulla, avvengono liti, scenate, e Cavalena scappa di casa e sta fuori quindici o venti giorni, finché non gli ritorna la coscienza d'esser medico e il pensiero della figliuola abbandonata, “povera cara animuccia bella”, com'egli la chiama.

È per me un gran piacere, quand'egli si mette a parlarmi di lei; ma appunto per questo non faccio mai nulla per provocarne il discorso: mi parrebbe d'approfittare vilmente della debolezza del padre, per penetrare, attraverso le confidenze di lui, nell'intimità di quella “povera animuccia bella”, com'egli la chiama. No, no! Tante volte sono anche sul punto d'impedirgli di seguitare.

Pare mill'anni a Cavalena che la sua Sesè sposi, abbia la sua vita fuori dell'inferno di questa casa! La mamma, invece, non fa altro che gridarle tutti i giorni:

- Non sposare, bada! Non sposare, sciocca! Non commettere questa pazzia!

- E Sesè? Sesè? - mi vien voglia di domandargli; ma, al solito, mi sto zitto.

La povera Sesè, forse, non sa neppur lei che cosa vorrebbe. Forse, certi giorni, insieme col padre, vorrebbe che fosse domani; cert'altri giorni proverà il più acerbo dispetto nel sentirne fare qualche accenno velato ai genitori. Perché certo questi, con le loro indegne scenate, debbono averle strappate tutte le illusioni, tutte, tutte, a una a una, mostrandole attraverso gli strappi le crudezze più nauseose della vita coniugale.

Le hanno impedito, intanto, di procurarsi altrimenti la libertà, i mezzi di bastare fin da ora a se stessa, da potersene andare lontano da questa casa, per conto suo. Le avranno detto che, grazie a Dio, non ne ha bisogno, lei: figlia unica, avrà per sé domani la dote della mamma. Perché avvilirsi a far la maestra o attendere a qualche altro ufficio? Può leggere, studiare quel che le piace, sonare il pianoforte, ricamare, libera in casa sua.

Bella libertà!

L'altra sera, sul tardi, quando tutti abbiamo lasciato la camera del Nuti già addormentato, l'ho vista seduta nel balconcino. Stiamo nell'ultima casa di via Veneto, e abbiamo davanti l'aperto di Villa Borghese. Quattro balconcini all'ultimo piano, sul cornicione della casa. Cavalena stava seduto a un altro balconcino, e pareva assorto a guardare le stelle.

A un tratto, con una voce che arrivò come da lontano, quasi dal cielo, soffusa d'un accoramento infinito, gli ho sentito dire:

- Sesè, vedi le Plejadi?

Ella ha finto di guardare: forse aveva gli occhi pieni di lagrime.

E il padre:

- Eccole là... sul tuo capo... quel gruppetto di stelle... le vedi?

Gli fe' cenno di sì, che le vedeva.

- Belle, no, Sesè? E vedi là Capella, come arde?

Le stelle... Povero papà! bella distrazione... E con una mano s'aggiustava, si carezzava su le tempie i cernecchi arricciolati della parrucca artistica, mentre con l'altra mano... che? ma sì... aveva sulle ginocchia Piccinì, la sua nemica, e le carezzava la testina... Povero papà! Doveva essere in uno dei suoi momenti più tragici e patetici!

Veniva dalla Villa un fruscìo di foglie lungo lento lieve; dalla via deserta qualche suono di passi e il rapido fragorìo scalpitante di qualche vettura frettolosa. Il tintinnìo del campanello e il protratto ronzìo della carrùcola scorrente lungo il filo elettrico delle linee tramviarie pareva strappasse e si strascinasse dietro con violenza la via, con le case e gli alberi. Poi taceva tutto, e nella calma stanca riassommava un suono remoto di pianoforte chi sa da quale casa. Era un suono lene, come velato, malinconico, che attirava l'anima, la fissava in un punto, quasi per darle modo d'avvertire quanto fosse grave la tristezza sospesa da per tutto.

Ah, sì - forse pensava la signorina Luisetta - sposare... S'immaginava, forse, che sonava lei, in una casa ignota, remota, quel pianoforte, per addormentar la pena dei tristi ricordi lontani, che le hanno avvelenato per sempre la vita?

Le sarà possibile illudersi? potrà far che non cadano avvizzite, come fiori, all'aria muta, diaccia d'una sconfidenza ormai forse invincibile tutte le grazie ingenue, che di tanto in tanto le sorgono dall'anima? Noto ch'ella si guasta, volontariamente; si fa talvolta dura, ispida, per non parer tenera e credula. Forse vorrebbe esser gaja, vispa, come più d'una volta, in qualche momento lieto d'oblio, appena levata di letto, le suggeriscono gli occhi, dallo specchio: quei suoi occhi, che riderebbero tanto volentieri, brillanti e acuti, e che ella condanna a parere invece assenti, o schivi e scontrosi. Poveri occhi belli! Quante volte sotto le ciglia aggrottate non li fissa nel vuoto, mentre per le nari trae un lungo sospiro silenzioso, quasi non volesse farlo sentire a se stessa! E come le si velano e le cangiano di colore, ogni qual volta trae uno di questi sospiri silenziosi!

Certo, deve avere imparato da un pezzo a diffidare delle sue impressioni, per il timore forse non le si attacchi a poco a poco la stessa malattia della madre. Lo dimostra chiaramente l'improvviso scomporsi delle espressioni in lei, certi subitanei pallori dopo un subitaneo invermigliarsi di tutto il viso, un sorridente rasserenarsi del volto dopo un atteggiamento fosco repentino. Chi sa quante volte, andando per via col padre e la madre, non si sentirà ferire d'ogni suono di risa, e quante volte non proverà la strana impressione che pur quell'abitino azzurro, di seta svizzera, lieve lieve, le pesi addosso come una casacca di reclusa e che il cappello di paglia le schiacci la testa; e la tentazione di stracciare quella seta azzurra, di strapparsi dal capo quella paglia e sbertucciarla con ambo le mani furiosamente e scaraventarla... in faccia alla mamma? no... in faccia al babbo, allora? no..., per terra, per terra, pestando i piedi. Perché sì, le parrà una buffonata, una farsa sconcia, andare così parata, da personcina per bene, da signorina che s'illuda di far la sua figura, o che magari dia a vedere d'aver qualche bel sogno per la mente, quando poi in casa e anche per via, quanto c'è di più laido, di più brutale, di più selvaggio nella vita debba scoprirsi e saltar fuori, in quelle scenate quasi cotidiane tra i suoi genitori, ad affogarla di tristezza e d'onta e di schifo.

Di questo, sopra tutto, mi pare che sia ormai profondamente compenetrata: che nel mondo, così come se lo creano e glielo creano attorno i suoi genitori col loro comico aspetto, con la grottesca ridicolaggine di quella furiosa gelosia, col disordine della loro vita, non ci può esser posto, aria e luce per la sua grazia. Come potrebbe la grazia farsi avanti, respirare, avvivarsi di un qualche tenue color gajo e arioso, in mezzo a quel ridicolo che la trattiene e la soffoca e l'oscura?

È come una farfalla fissata crudelmente con uno spillo, ancora viva. Non osa batter le ali, non solo perché non spera di liberarsi, ma anche e più per non farsi scorgere troppo.

 




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