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Pietro Verri
Diario militare

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Host in Sassonia, 8 ottobre, 1795.

 

Dai fogli pubblici avrete osservato che il secreto del nostro piano di campagna era di vincere col sangue dei nostri alleati e risparmiarci; in fatti i Moscoviti, credendo alle nostre finte, si son bravamente battuti; noi dovevamo cader sopra al re, uno o due giorni dopo la rotta, approfittare dello sconcerto della sua armata, e non abbiamo mai fatto niente da vero. Mentre stavamo avanzando, ritirando il quartiere, un errore del generale De-Ville ci ha obbligati a correre per salvare Dresda. De-Ville comandava un corpo staccato di diecimila uomini, fu collocato per riparare Dresda dalle invasioni che potevano farsi dalla Slesia. Si appostò senza alcuna precauzione. Un sergente non collocherà trenta uomini, senza porre prima uno o due in sentinella avanzata verso il nemico, almeno per avvisarlo quando possa essere attaccato. Un corpo di diecimila uomini stacca sempre qualche compagnia che stia ai posti avanzati, e da questa vi staccano sentinelle ancora più vicine al nemico, in modo che dai colpi di fucile sia avvisato dall'avanzarsi del nemico, prenda le disposizioni e si metta in istato di riceverlo e respingerlo. De-Ville aveva dimenticato tutto ciò. Una banda di Prussiani s'avanzava per attaccarlo, non per riconoscerlo. Questa cade immediatamente sul campo. Sorpresi i nostri e il De-Ville, non ebbero tempo d'esaminare quanti fossero i nemici, tutti si precipitarono sbandatamente in fuga, e obbligarono l'armata a venire nei contorni di Dresda ove era l'armata dell'Impero, se pure merita il nome d'armata. Ho veduto Dresda un momento; ma da che ci avanziamo alla volta di Vittemberg, ogni giorno vediamo il nemico che si ritira a piccole marce, e noi a piccole marce andiamo seguendolo. Tutto il giorno si fanno schioppettate fra i nostri usseri e Prussiani, e sempre, grazie al cielo, rimangono sani e salvi. L'ussero non ammazza mai un ussero, né un cannoniere un cannoniere, credo abbiano un patto di famiglia e gettino la polve al vento.

A Dresda si sono uniti con noi i due principi reali di Sassonia, Alberto e Clemente; è qualche cosa di grande pel maresciallo vedersi corteggiato uno per parte da simili volontarii. Oltre il principe Luigi di Vittemberg, il duca di Braganza e altri signori della prima distinzione, il maresciallo ha per la sua persona una guardia del corpo d'usseri e cacciatori, e al suo alloggio una compagnia di granatieri. L'imperatore non ne avrebbe di più se fosse qui in persona. La subordinazione lo rende superiore a tutti, e si vedono i principi reali fargli i rapporti col cappello in mano, mentre egli sta coperto. La guerra ritorna gli uomini allo stato di natura, il più forte comanda, chi ha bisogno cerca la benevolenza; questi due principi, dei quali il paese è in preda alla guerra, senza tributi, senza sudditi, senza armata, sono costretti a vedere sotto i loro occhi depredate le loro contrade, e inutilmente compiangere la sventura de’ suoi. Vi dirò un aneddoto. A Dresda mi fu mostrata la porta dell'archivio, sulla quale la regina in persona voleva opporsi all'ufficiale prussiano incaricato di estrarre alcune carte originali, ma inutilmente adoperò l'incanto della maestà regia, perché l'ufficiale aveva troppi precisi ordini, e il re Federico vuole esattezza. L'aneddoto è questo. Il ministro imperiale a Berlino era, come sapete, il generale conte Puebla, al quale dalla nostra Corte era stato assegnato per secretario di delegazione il Veingarten. Puebla non era tranquillo sulla fedeltà di questo secretario, infatti costui tradì la Corte, e svelò al Gabinetto prussiano il trattato che era sul tappeto fra la Moscovia e il re di Prussia e noi per la Slesia. Questo filo bastò perché i ministri prussiani a Pietroburgo, a Vienna e a Dresda fossero avvisati di scoprirne l'oggetto. Il ministro prussiano a Dresda aveva un abilissimo secretario, questi fece lega con un secretario di Gabinetto di Sassonia, onestissimo, fedelissimo, ma per sua sventura dato al giuoco ed alle donne. Il prussiano aspettò che il sassone avesse fatta una perdita e fosse inquieto per comparir puntuale, e gli esibì denaro in prestito. Poi l'amicizia sempre più stringeva, si passava a cene deliziose con belle e facili fanciulle, e così voluttuosamente il povero sassone si trovò d'aver contratto un debito sensibile. Fece perdite, e il prussiano si mostrò afflitto per non aver più di che soccorrere il suo amico, lo lasciò per qualche tempo in pena, poi gli propose l'espediente di ricorrere al ministro di Prussia suo principale, essendo egli uomo che aveva del denaro e inclinato a far piacere. Questa proposizione sbigottì il buon secretario sassone, al quale fece senso, essendo il Gabinetto in un geloso ufficio di Stato, di poter comparire legato con un ministro estero e singolarmente d'un vicino gelosamente osservato come il re di Prussia. Ma il bisogno, l'inopia d'altri mezzi, la fiducia nell'apparente buona fede di quel secretario che credeva suo amico, la speranza di sanar tutto con miglior fortuna al giuoco, gli fecero sorpassare il passo e ricevette soccorso in prestito dal ministro prussiano. Legato che fu, forse anche con replicate somme, la scena cambiò. Il secretario prussiano cominciò a chieder la restituzione in nome del suo principale; fingeva dispiacere di questo e gettava tutta la colpa sul ministro, pretestava i motivi del bisogno che il ministro aveva del denaro, e gradatamente dopo alcune settimane venne all'intimazione che se non pagava la somma, il ministro avrebbe trovato modo d'esser pagato. A questo colpo il secretario sassone si vide perso. Se avesse almeno avuto vigore d'animo, egli stesso doveva confessare al conte di Brühl il suo fallo prima di lasciarsi trascinare a perdere la sua virtù e sacrificare il dovere e tradire il sovrano; ma fu timido, e le anime timide sono le più disposte a far male. Nella desolazione in cui si trovò, gettossi ciecamente nelle braccia del suo finto amico, che destramente lo condusse dove voleva, cioè, che il ministro prussiano potesse essere introdotto nell'archivio, soltanto per un momento al fine di conoscere un tal nominato dispaccio (e questo era di nessuna importanza), gli prometteva che avrebbe lacerato ogni suo vaglia e tutto sarebbe finito. Gli spianò ogni difficoltà sul modo dell'esecuzione, l'ora, la strada, il mezzo cauto e sicuro furon trovati, fu indotto il sassone a questa rea condiscendenza. Posto che ebbe il piede il prussiano nell'archivio, cercò invece gli scaffali nei quali eranvi i dispacci del conte di Flemming ministro di Sassonia a Vienna; vi dimorò quanto gli piacque, fece le annotazioni che volle, e il sassone smarrito non poteva più né ritrarsi né dir ragione, dovette lasciar fare, ed ecco che il re di Prussia, nell'invadere la Sassonia, poté dar ordine al suo ufficiale di prendere dal tal scaffale, al numero tale, la tale e tal carta, che si ritrovò esattamente, e queste carte originali le fece poi dai suoi ministri alle Corti dell'impero vedere, e giustificare come fosse ordita la trama di spogliarlo della Slesia, e la guerra fosse difensiva per parte sua, come poi pubblicò anche colla stampa quei documenti nel suo Mémoire raisonné. Quest'aneddoto potrebbe servire ad ammaestrare gli uomini che sono mal sicuri contro qualunque eccesso, tosto che smoderatamente si abbandonino al giuoco, e che la virtù e l'onestà si perdono colla debolezza e coll’incauta docilità anche da chi abbia un'ottima ed onorata indole. Io deploro il povero secretario sassone, disonorato ed in preda ai rimorsi. S'egli fosse stato un uomo perverso, non avrebbe né rossore, né rimprovero al suo cuore; era buono e virtuoso, e perciò è più miserabile, e degno di compassione.

Il maresciallo è sempre dello stesso umore, quando si è presso di lui non si parla mai di guerra. Son sempre ben trattato alla sua tavola e m'indirizza qualche parola. Nei calori dell'estate scorsa alcune volte al dopo pranzo usciva a capo nudo e pelato, senza parrucca o berretta, con un giubboncino di tela bianca slacciato il collo, e sedeva circondato da vari dei primi signori e generali che stavano in piedi. Veniva il maresciallo a prendere una gran tazza enorme di sorbetto di limoni senza che ne venisse offerto a nessuno, e godendo delle ciarle che si facevano si rinfrescava, mentre io mi sentivo un'impetuosissima voglia d'avere un sorbetto. Ma come trovare ghiaccio in un miserabile villaggio. Dopo il sorbetto beveva una caraffina di tockay. Il costume non è cortese, poteva prendere da solo nella sua stanza quella delizia, senza farla invidiare a tanti galantuomini. Ma la società austriaca non riflette delicatamente, né fa economia di sensazioni disgustose agli altri. Il mio Lloyd è il mio mentore, la mia consolazione, più lo conosco e più lo stimo ed amo, egli ha dell'amicizia per me; mi son distaccato da alcune mignatte di capitani che avevano amicizia col mio cioccolatte e col mio cuoco, per disfarmene ho dovuto chiaramente dir loro che se n'andassero perché volevo pranzar da solo. Questi parassiti ruinerebbero al pari degli altri, né vi consolerebbero colle apparenti officiosità dei nostri. Lloyd è sommamente generoso, è povero, ma è indifferente a vivere con un pezzo di pane. Il Lascy lo adopera assai, ultimamente l'ho veduto incaricato a far fortificare un sito, egli portava le fascine, adoperava la zappa, travagliava come i soldati che erano sotto i suoi ordini, e li chiamava fratelli, lavorava allegramente, rallegrava gli altri, e sotto di lui in un giorno s'è fatto quello che un altro avrebbe fatto in tre o quattro. Giriamo il paese, visitiamo le posizioni, ragioniamo sulla guerra: dico ragioniamo, perché sebbene io senta la gran distanza che v'è fra le sue cognizioni e le mie che cominciano, sento però che principio a ragionare. Ma vi ripeto che sono rarissimi coloro che all'armata sappiano cosa sia la guerra e cosa si faccia. Vi abbraccio, addio.

 

 

 




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