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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO QUINTO

Degno amore mi allaccia finalmente per sempre.

 

Sgravato in tal guisa l'esacerbato mio animo dal lungo e traboccante odio ingenito suo contro la tirannide, io mi sentii tosto richiamato alle opere teatrali; e quel libercoletto, dopo averlo letto all'amico, ed a pochissimi altri, sigillai e posi da parte, né piú ci pensai per molti anni. Intanto, ripreso il coturno, rapidissimamente distesi ad un tratto l'Agamennone, l'Oreste, e la Virginia. E circa all'Oreste, mi era nato un dubbio prima di stenderlo, ma il dubbio essendo per sé stesso picciolo e vile, mi venne in magnanima guisa disciolto dall'amico. Questa tragedia era stata da me ideata in Pisa l'anno innanzi, e mi avea infiammato di tal soggetto la lettura del pessimo Agamennone di Seneca. Nell'inverno poi, trovandomi io in Torino, squadernando un giorno i miei libri, mi venne aperto un volume delle tragedie del Voltaire, dove la prima parola che mi si presentò fu, Oreste tragedia. Chiusi subito il libro, indispettito di ritrovarmi un tal competitore fra i moderni, di cui non avea mai saputo che questa tragedia esistesse. Ne domandai allora ad alcuni, e mi dissero esser quella una delle buone tragedie di quell'autore; il che mi avea molto raffreddato nell'intenzione di dar corpo alla mia. Trovandomi io dunque poi in Siena, come dissi, ed avendo già steso l'Agamennone, senza piú nemmeno aprire quello di Seneca, per non divenir plagiario, allorché fui sul punto di dovere stender l'Oreste, mi consigliai coll'amico raccontandogli il fatto e chiedendogli in imprestito quello del Voltaire per dargli una scorsa, e quindi o fare il mio o non farlo. Il Gori, negandomi l'imprestito dell'Oreste francese, soggiunse: «Scriva il suo senza legger quello; e se ella è nato per fare tragedie, il suo sarà o peggiore o migliore od uguale a quell'altro Oreste, ma sarà almeno ben suo». E cosí feci. E quel nobile ed alto consiglio divenne d'allora in poi per me un sistema; onde, ogni qual volta mi sono accinto a trattar poi soggetti già trattati da altri moderni, non li lessi mai se non dopo avere steso e verseggiato il mio; e se li aveva visti in palco, cercai di non me ne ricordar punto; e se mal mio grado me ne ricordava, cercai di fare, dove fosse possibile, in tutto il contrario di quelli. Dal che mi è sembrato che me ne sia ridondata in totalità una faccia ed un tragico andamento, se non buono, almeno ben mio.

Quel soggiorno di circa cinque mesi in Siena fu dunque veramente un balsamo pel mio intelletto e pel mio animo ad un tempo. Ed oltre tutte le accennate composizioni, vi continuai anche con ostinazione e con frutto lo studio dei classici latini, tra cui Giovenale, che mi fece gran colpo, e lo rilessi poi sempre in appresso non meno di Orazio. Ma approssimandosi l'inverno, che in Siena non è punto piacevole, e non essendo io ancora ben sanato dalla giovanile impazienza di luogo, mi determinai nell'ottobre di andare a Firenze, non ancora ben certo se vi passerei pur l'inverno, o se me ne tornerei a Torino. Ed ecco, che appena mi vi fui collocato cosí alla peggio per provarmici un mese, nacque tale accidente, che mi vi collocò e inchiodò per molti anni; accidente, per cui determinatomi per mia buona sorte ad espatriarmi per sempre, io venni fra quelle nuove spontanee ed auree catene ad acquistare davvero la ultima mia letteraria libertà, senza la quale non avrei mai fatto nulla di buono, se pur l'ho fatto.

Fin dall'estate innanzi, ch'io avea come dissi passato intero a Firenze, mi era, senza ch'io 'l volessi, occorsa piú volte agli occhi una gentilissima e bella signora, che per esservi anch'essa forestiera e distinta, non era possibile di non vederla e osservarla; e piú ancora impossibile, che osservata e veduta non piacesse ella sommamente a ciascuno. Con tutto ciò, ancorché gran parte dei signori di Firenze, e tutti i forestieri di nascita da lei capitassero, io immerso negli studi e nella malinconia, ritroso e selvaggio per indole, e tanto piú sempre intento a sfuggire tra il bel sesso quelle che piú aggradevoli e belle mi pareano, io perciò in quell'estate innanzi non mi feci punto introdurre nella di lei casa; ma nei teatri e spasseggi mi era accaduto di vederla spessissimo. L'impression prima me n'era rimasta negli occhi, e nella mente ad un tempo, piacevolissima. Un dolce focoso negli occhi nerissimi accoppiatosi (che raro adiviene) con candidissima pelle e biondi capelli, davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito e conquiso. Età di anni venticinque; molta propensione alle bell'arti e alle lettere; indole d'oro; e, malgrado gli agi di cui abondava, penose e dispiacevoli circostanze domestiche, che poco la lasciavano essere, come il dovea, avventurata e contenta. Troppi pregi eran questi, per affrontarli.

In quell'autunno dunque sendomi da un mio conoscente proposto piú volte d'introdurmivi, io credutomi forte abbastanza mi arrischiai di accostarmivi; né molto andò ch'io mi trovai quasi senza avvedermene preso. Tuttavia titubando io ancora tra il e il no di questa fiamma novella, nel decembre feci una scorsa a Roma per le poste a cavallo; viaggio pazzo e strapazzatissimo, che non mi fruttò altro che d'aver fatto il sonetto di Roma, pernottando in una bettolaccia di Baccano, dove non mi riuscí mai di poter chiuder occhio. L'andare, lo stare, e il tornare, furono circa dodici giorni. Rividi nelle due passate da Siena l'amico Gori, il quale non mi sconsigliò da quei nuovi ceppi, in cui già era piú che un mezzo allacciato; onde il ritorno in Firenze me li ribadí ben tosto per sempre. Ma l'approssimazione di questa mia quarta ed ultima febbre del cuore si veniva felicemente per me manifestando con sintomi assai diversi dalle tre prime. In quelle io non m'era ritrovato allora agitato da una passione dell'intelletto la quale contrapesando e frammischiandosi a quella del cuore venisse a formare (per esprimermi col poeta) un misto incognito indistinto, che meno d'alquanto impetuoso e fervente, ne riusciva però piú profondo, sentito, e durevole. Tale fu la fiamma che da quel punto in poi si andò a poco a poco ponendo in cima d'ogni mio affetto e pensiero, e che non si spegnerà oramai piú in me se non colla vita. Avvistomi in capo a due mesi che la mia vera donna era quella, poiché invece di ritrovare in essa, come in tutte le volgari donne, un ostacolo alla gloria letteraria, un disturbo alle utili occupazioni, ed un rimpicciolimento direi di pensieri, io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell'opera; io, conosciuto e apprezzato un raro tesoro, mi diedi allora perdutissimamente a lei. E non errai per certo, poiché piú di dodici anni dopo, mentr'io sto scrivendo queste chiacchiere, entrato oramai nella sgradita stagione dei disinganni, vieppiú sempre di essa mi accendo quanto piú vanno per legge di tempo scemando in lei quei non suoi pregi passeggieri della caduca bellezza. Ma in lei si innalza, addolcisce, e migliorasi di giorno in giorno il mio animo; ed ardirò dire e creder lo stesso di essa, la quale in me forse appoggia e corrobora il suo.

 

 

 




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