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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO NONO

Studi ripresi ardentemente in Roma. Compimento delle quattordici prime tragedie.

 

Tosto ch'io un tal poco respirai da codesti esercizi di semiservitú, contento oltre ogni dire di un'onesta libertà per cui mi era dato di visitare ogni sera l'amata, mi restituii tutto intero agli studi. Ripreso dunque il Polinice, terminai di riverseggiarlo; e senza piú pigliar fiato, proseguii da capo l'Antigone, poi la Virginia, e successivamente l'Agamennone, l'Oreste, i Pazzi, il Garzia; poi il Timoleone che non era stato ancor posto in versi; ed in ultimo, per la quarta volta, il renitente Filippo. E mi andava tal volta sollevando da quella troppo continuità di far versi sciolti, proseguendo il terzo canto del poemetto; e nel decembre di quell'anno stesso composi d'un fiato le quattro prime lodi dell'America libera. A queste m'indusse la lettura di alcune bellissime e nobili odi del Filicaia, che altamente mi piacquero. Ed io stesi le mie quattro in sette soli giorni, e la terza intera in un giorno solo, ed esse con picciole mutazioni sono poi rimaste quali furono concepite. Tanta è la differenza (almeno per la mia penna) che passa tra il verseggiare in rima liricamente, o il far versi sciolti di dialogo.

Nel principio dell'anno '82, vedendomi poi tanto inoltrate le tragedie, entrai in speranza, che potrei dar loro compimento in quell'anno. Fin dalla prima io mi era proposto di non eccedere il numero di dodici; e me le trovava allora tutte concepite, e distese, e verseggiate; e riverseggiate le piú. Senza discontinuare dunque proseguiva a riverseggiare, e limare quelle che erano rimaste; sempre progredendole successivamente nell'ordine stesso con cui elle erano state concepite, e distese.

In quel frattempo, verso il febbraio dell'82, tornatami un giorno fra le mani la Merope del Maffei per pur vedere s'io c'imparava qualche cosa quanto allo stile, leggendone qua e degli squarci mi sentii destare improvvisamente un certo bollore d'indegnazione e di collera nel vedere la nostra Italia in tanta miseria e cecità teatrale che facessero credere o parere quella come l'ottima e sola delle tragedie, non che delle fatte fin allora (che questo lo assento anch'io), ma di quante se ne potrebber far poi in Italia. E immediatamente mi si mostrò quasi un lampo altra tragedia dello stesso nome e fatto, assai piú semplice e calda e incalzante di quella. Tale mi si appresentò nel farsi ella da me concepire, direi per forza. S'ella sia poi veramente riuscita tale, lo decideranno quelli che verran dopo noi. Se mai con qualche fondamento chi schicchera versi ha potuto dire est Deus in nobis, lo posso certo dir io, nell'atto che io ideai, distesi, e verseggiai la mia Merope, che non mi diede mai treguapace finch'ella non ottenesse da me l'una dopo l'altra queste tre creazioni diverse, contro il mio solito di tutte l'altre, che con lunghi intervalli riceveano sempre queste diverse mani d'opera. E lo stesso dovrò dire pel vero, risguardo al Saulle. Fin dal marzo di quell'anno mi era dato assai alla lettura della Bibbia, ma non però regolatamente con ordine. Bastò nondimeno perch'io m'infiammassi del molto poetico che si può trarre da codesta lettura, e che non potessi piú stare a segno, s'io con una qualche composizione biblica non dava sfogo a quell'invasamento che n'avea ricevuto. Ideai dunque, e distesi, e tosto poi verseggiai anche il Saulle, che fu la decimaquarta, e secondo il mio proposito d'allora l'ultima dovea essere di tutte le mie tragedie. E in quell'anno mi bolliva talmente nella fantasia la facoltà inventrice, che se non l'avessi frenata con questo proponimento, almeno altre due tragedie bibliche mi si affacciavano prepotentemente, e mi avrebbero strascinato; ma stetti fermo al proposito, e parendomi essere le quattordici anzi troppo che poche, feci punto. Ed anzi (nemico io sempre del troppo, ancorché ad ogni altro estremo la mia natura mi soglia trasportare) nello stendere la Merope e il Saulle mi facea tanto ribrezzo l'eccedere il numero che avea fissato, ch'io promisi a me stesso di non le verseggiare, se non quando avrei assolutamente finite e strafinite tutte l'altre; e se non riceveva da esse in intero l'effetto stessissimo, ed anche maggiore, che avea provato nello stenderle, promisi anche a me di non proseguirle altrimenti. Ma che valsero e freni, e promesse, e propositi? Non potei mai far altro, né ritornar su le prime, innanzi che quelle due ultime avessero ricevuto il loro compimento. Cosí son nate queste due; spontanee piú che tutte l'altre; dividerò con esse la gloria, s'esse l'avranno acquistata e meritata; lascierò ad esse la piú gran parte del biasimo, se lo incontreranno; poiché e nascere e frammischiarsi coll'altre a viva forza han voluto. Né alcuna mi costò meno fatica, e men tempo di queste due.

Intanto verso il fin del settembre di quell'anno stesso '82, tutte quattordici furono dettate, ricopiate, e corrette; aggiungerei, e limate, ma in capo a pochi mesi m'avvidi e convinsi, che da ciò ell'erano ancor molto lontane. Ma per allora il credei, e mi tenni essere il primo uomo del mondo; vedendomi avere in dieci mesi verseggiate sette tragedie; inventatene, stese, e verseggiate due nuove; e finalmente, dettatene quattordici, correggendole. Quel mese di ottobre, per me memorabile, fu dunque dopo calde fatiche un riposo non men delizioso che necessario; ed alcuni giorni impiegai in un viaggetto a cavallo sino a Terni per veder quella famosa cascata. Pieno turgido di vanagloria, non lo dicevo però ad altri mai che a me stesso, spiattellatamente, e con un qualche velame di moderazione lo accennava anche alla dolce metà di me stesso; la quale, parendo anch'essa (forse per l'affetto che mi portava) propensa a potermi tenere per un grand'uomo; essa piú ch'altra cosa sempre piú m'impegnava a tutto tentare per divenirlo. Onde dopo un par di mesi di ebbrezza di giovenile amor proprio, da me stesso mi ravvidi nel ripigliar ad esame le mie quattordici tragedie, quanto ancora di spazio mi rimanesse a percorrere prima di giungere alla sospirata meta. Tuttavia, trovandomi in età di non ancora trentaquattr'anni, e nell'aringo letterario trovandomi giovine di soli otto anni di studio, sperai piú fortemente di prima, che acquisterei pure una volta la palma; e di fatta speranza non negherò che me n'andasse tralucendo un qualche raggio sul volto, ancorché l'ascondessi in parole.

In diverse occasioni io era andato leggendo a poco a poco tutte codeste tragedie in varie società sempre miste di uomini e donne, di letterati e d'idioti, di gente accessibile ai diversi affetti e di tangheri. Nel leggere io le mie produzioni, avea ricercato (parlando pel vero) non men che la lode il vantaggio. Io conosceva abbastanza e gli uomini ed il bel mondo, per non mi fidarecredere stupidamente in quelle lodi del labro, che non si negano quasi mai ad un autore leggente, che non chiede nulla, e si sfiata in un ceto di persone ben educate e cortesi: onde a fatte lodi io dava il loro giusto valore, e non piú. Ma molto badava, ed apprezzava le lodi ed il biasimo, ch'io per contrapposto al labro le appellerei del sedere, se non fosse sconcia espressione; cotanto ella mi par vera e calzante. E mi spiego. Ogniqualvolta si troveranno riuniti dodici o quindici individui, misti come dissi, lo spirito collettivo che si verrà a formare in questa varia adunanza, si accosterà e somiglierà assai al totale di una pubblica udienza teatrale. E ancorché questi pochi non vi assistano pagando, e la civiltà voglia ch'essi vi stiano in piú composto contegno; pure, la noia ed il gelo di chi sta ascoltando non si possono mai nascondere, né (molto meno) scambiarsi con una vera attenzione, ed un caldo interesse, e viva curiosità di vedere a qual fine sia per riuscire l'azione. Non potendo dunque l'ascoltatorecomandare al proprio suo viso, né inchiodarsi direi in su la sedia a sedere; queste due indipendenti parti dell'uomo faranno la giustissima spia al leggente autore, degli affetti e non affetti de' suoi ascoltanti. E questo era (quasi esclusivamente) quello che io sempre osservava leggendo. E m'era sembrato sempre (se io pure non travedeva) di avere sul totale di una intera tragedia ottenuto piú che i due terzi del tempo una immobilità e tenacità d'attenzione, ed una calda ansietà di schiarire lo scioglimento; a che mi provava bastantemente ch'egli rimaneva, anche nei piú noti soggetti di tragedia, tuttavia pendente ed incerto sino all'ultimo. Ma confesserò parimente, che di molte lunghezze, o freddezze, che vi poteano essere qua e , oltre che io medesimo mi era spesso tediato nel rileggerle ad altri, ne ricevei anche il sincerissimo tacito biasimo, da quei benedetti sbadigli, e involontarie tossi, e irrequieti sederi, che me ne davano, senza avvedersene, certezza ad un tempo ed avviso. E neppur negherò, che anche degli ottimi consigli, e non pochi, mi siano stati suggeriti dopo quelle diverse letture, da uomini letterati, da uomini di mondo, e spezialmente circa gli affetti, da varie donne. I letterati battevano su l'elocuzione e le regole dell'arte; gli uomini di mondo, su l'invenzione, la condotta e i caratteri, e perfino i giovevolissimi tangheri, col loro piú o meno russare o scontorcersi; tutti in somma, quanto a me pare, mi riuscirono di molto vantaggio. Onde io, tutti ascoltando, di tutto ricordandomi, nulla trascurando, e non disprezzando individuo nessuno (ancorché pochissimi ne stimassi), ne trassi poi forse e per me stesso e per l'arte quel meglio che conveniva. Aggiungerò a tutte queste confessioni per ultima, che io benissimo mi avvedeva, che quell'andar leggendo tragedie in semi-pubblico, un forestiere fra gente non sempre amica, mi poteva e doveva anzi esporre a esser messo in ridicolo. Non me ne pento però di aver cosí fatto, se ciò poi ridondò in beneficio mio e dell'arte; il che se non fu, il ridicolo delle letture anderà poi con quello tanto maggiore, dell'averle recitate, e stampate.

 

 

 




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