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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO DECIMO

Recita dell'Antigone in Roma. Stampa delle prime quattro tragedie. Separazione dolorosissima. Viaggio per la Lombardia.

 

Io dunque me ne stava cosí in un semiriposo, covando la mia tragica fama, ed irresoluto tuttavia se stamperei allora, o se indugierei dell'altro. Ed ecco, che mi si presentava spontanea un'occasione di mezzo tra lo stampare e il tacermi; ed era, di farmi recitare da una eletta compagnia di dilettanti signori. Era questa società teatrale già avviata da qualche tempo a recitare in un teatro privato esistente nel palazzo dell'ambasciatore di Spagna, allora il duca Grimaldi. Si erano fin allora recitate delle commedie e tragedie, tutte traduzioni, e non buone, dal francese; e tra queste assistei ad una rappresentazione del Conte d'Essex di Tommaso Corneille, messa in verso italiano non so da chi, e recitata la parte di Elisabetta dalla duchessa di Zagarolo, piuttosto male. Con tutto ciò, vedendo io questa signora essere assai bella e dignitosa di personale, ed intendere benissimo quel che diceva, argomentai che con un po' di buona scuola si sarebbe potuta assaissimo migliorare. E cosí d'una in altra idea fantasticando, mi entrò in capo di voler provare con questi attori una delle troppe mie. Voleva convincermi da me stesso, se potrebbe riuscire quella maniera che io avea preferita a tutt'altre; la nuda semplicità dell'azione; i pochissimi personaggi; ed il verso rotto per lo piú su diverse sedi, ed impossibile quasi a cantilenarsi. A quest'effetto prescelsi l'Antigone, riputandola io l'una delle meno calde tra le mie, e divisando fra me e me, che se questa venisse a riuscire, tanto piú il farebbero l'altre in cui si sviluppan affetti tanto piú vari e feroci. La proposta di provar quest'Antigone fu accettata con piacere dalla nobile compagnia; e fra quei loro attori non si trovando allora alcun altro che si sentisse capace di recitare in tragedia una parte capitale oltre il duca di Ceri, fratello della predetta duchessa di Zagarolo, mi trovai costretto di assumermi io la parte di Creonte, dando al duca di Ceri quella di Emone; e alla di lui consorte, quella di Argia: la parte principalissima dell'Antigone spettando di dritto alla maestosa duchessa di Zagarolo. Cosí distribuite le quattro parti, si andò in scena; né altro aggiungerò circa all'esito di quelle rappresentazioni, avendo avuto occasione di parlarne assai lungamente in altri miei scritti.

Insuperbito non poco dal prospero successo della recita, verso il principio del seguente anno mi indussi a tentare per la prima volta la terribile prova dello stampare. E per quanto già mi paresse scabrosissimo questo passo, ben altrimenti poi lo conobbi esser tale, quando imparai per esperienza cosa si fossero le letterarie inimicizie e raggiri; e gli asti librarii, e le decisioni giornalistiche, e le chiacchiere gazzettarie, e tutto in somma il tristo corredo che non mai si scompagna da chi va sotto i torchi; e tutte queste cose mi erano fin allora state interamente ignote; ed a segno, ch'io neppur sapeva che si facessero giornali letterari, con estratti e giudizi critici delle nuove opere, era rozzo, e novizio, e veramente purissimo di coscienza nell'arte scrivana.

Decisa dunque la stampa, e visto che in Roma le stitichezze della revisione eran troppe, scrissi all'amico in Siena, di volersi egli addossar quella briga. Al che ardentissimamente egli in capite, con altri miei conoscenti ed amici, si prestò di vegliarvi da sé, e fare con diligenza e sollecitudine progredire la stampa. Non volli avventurare a bella prima che sole quattro tragedie; e di quelle mandai all'amico un pulitissimo manoscritto quanto al carattere e correzione; ma quanto poi alla lindura, chiarezza, ed eleganza dello stile, mi riuscí purtroppo difettoso. Innocentemente allora io mi credeva, che nel dare un manoscritto allo stampatore fosse terminata ogni fatica dell'autore. Imparai poi dopo a mie spese, che allora quasi si riprincipia.

In quei due e piú mesi che durava la stampa di codeste quattro tragedie, io me ne stava molto a disagio in Roma in una continua palpitazione e quasi febbre dell'animo, e piú volte, se non fosse stata la vergogna mi sarei disdetto, ed avrei ripreso il mio manoscritto. Ad una per volta mi pervennero finalmente tutte quattro in Roma, correttissimamente stampate, grazie all'amico; e sudicissimamente stampate, come ciascun le ha viste, grazie al tipografo: e barbaramente verseggiate (come io seppi poi), grazie all'autore. La ragazzata di andare attorno attorno per le varie case di Roma, regalando ben rilegate quelle mie prime fatiche, affine di accattar voti, mi tenne piú giorni occupato, non senza parer risibile agli occhi miei stessi, non che agli altrui. Le presentai, fra gli altri, al papa allora sedente Pio VI, a cui già mi era fatto introdurre fin dall'anno prima, allorché mi posi a dimora in Roma. E qui, con mia somma confusione, dirò di qual macchia io contaminassi me stesso in quella udienza beatissima. Io non molto stimava il papa come papa; e nulla il Braschi come uomo letteratobenemerito delle lettere, che non lo era punto. Eppure, quell'io stesso, previa una ossequiosa presentazione del mio volume, che egli cortesemente accettava, apriva, e riponeva sul suo tavolino, molto lodandomi, e non acconsentendo ch'io procedessi al bacio del piede, egli medesimo anzi rialzandomi in piedi da genuflesso ch'io m'era; nella qual umil positura Sua Santità si compiacque di palparmi come con vezzo paterno la guancia; quell'io stesso, che mi teneva pure in corpo il mio sonetto su Roma, rispondendo allora con blandizia e cortigianeria alle lodi che il pontefice mi dava su la composizione e recita dell'Antigone, di cui egli avea udito, disse, maraviglie; io, colto il momento in cui egli mi domandava se altre tragedie farei, molto encomiando un'arte ingegnosa e nobile; gli risposi che molte altre eran fatte, e tra quelle un Saul, il quale come soggetto sacro avrei, se egli non lo sdegnava, intitolato a Sua Santità. Il papa se ne scusò, dicendomi ch'egli non poteva accettar dedica di cose teatrali quali ch'elle si fossero; né io altra cosa replicai su ciò. Ma qui mi convien confessare, ch'io provai due ben distinte, ed ambe meritate, mortificazioni: l'una del rifiuto ch'io m'era andato accattare spontaneamente; l'altra di essermi pur visto costretto in quel punto a stimare me medesimo di gran lunga minore del papa, poiché io avea pur avuto la viltà, o debolezza, o doppiezza (che una di queste tre fu per certo, se non tutte tre, la motrice del mio operare in quel punto) di voler tributare come segno di ossequio e di stima una mia opera ad un individuo ch'io teneva per assai minore di me in linea di vero merito. Ma mi conviene altresí (non per mia giustificazione, ma per semplice schiarimento di tale o apparente o verace contraddizione tra il mio pensare, sentire e operare) candidamente espor la sola e verissima cagione, che m'avea indotto a prostituire cosí il coturno alla tiara. La cagione fu dunque, che io sentendo già da qualche tempo bollir dei romori preteschi che uscivano di casa il cognato dell'amata mia donna, per cui mi era nota la scontentezza di esso e di tutta la di lui corte circa alla mia troppa frequenza in casa di essa; e questo scontentamento andando sempre crescendo; io cercai coll'adulare il sovrano di Roma, di crearmi in lui un appoggio contro alle persecuzioni ch'io già parea presentire nel cuore, e che poi in fatti circa un mese dopo mi si scatenarono contro. E credo che quella stessa recita dell'Antigone, col far troppo parlare di me, mi suscitasse e moltiplicasse i nemici. Io fui dunque allora e dissimulato, e vile, per forza d'amore; e ciascuno in me derida se il può, ma riconosca ad un tempo, sé stesso. Ho voluto di questa particolarità, ch'io poteva lasciar nelle tenebre in cui si stava sepolta, fare il mio e l'altrui pro, disvelandola. Non l'avea mai raccontata a chicchessia in voce, vergognandomene non poco. Alla sola mia donna la raccontai qualche tempo dopo. L'ho scritta anche in parte per consolazione dei tanti altri autori presenti e futuri, i quali per una qualche loro fatal circostanza si trovano, e si troveranno pur troppo sempre i piú, vergognosamente sforzati a disonorar le lor opere e sé stessi con dediche bugiarde; ed affinché i malevoli miei possan dire con verità e sapore, che se io non mi sono avvilito con niuna di fatte simulazioni non fu che un semplice effetto della sorte, la quale non mi costrinse ad esser vile o parerlo.

Nell'aprile di quell'anno 1783 infermò gravemente in Firenze il consorte della mia donna. Il di lui fratello partí a precipizio, per ritrovarlo vivo. Ma il male allentò con pari rapidità, ed egli lo ritrovò riavutosi, ed affatto fuor di pericolo. Nella convalescenza, trattenendosi il di lui fratello circa quindici giorni in Firenze, si trattò fra i preti venuti con esso di Roma, ed i preti che aveano assistito il malato in Firenze, che bisognava assolutamente per parte del marito persuadere e convincere il cognato, ch'egli non poteva né dovea piú a lungo soffrire in Roma nella propria casa la condotta della di lui cognata. E qui, non io certamente farò l'apologia della vita usuale di Roma e d'Italia tutta, quale si suole vedere di presso che tutte le donne maritate. Dirò bensí, che la condotta di quella signora in Roma a riguardo mio era piuttosto molto al di qua, che non al di degli usi i piú tollerati in quella città. Aggiungerò, che i torti, e le feroci e pessime maniere del marito con essa, erano cose verissime, ed a tutti notissime. Ma terminerò con tutto ciò, per amor del vero e del retto, col dire, che il marito, e il cognato, e i loro rispettivi preti aveano tutte le ragioni di non approvare quella mia troppa frequenza, ancorché non eccedesse i limiti dell'onesto. Mi spiace soltanto, che quanto ai preti (i quali furono i soli motori di tutta la macchina), il loro zelo in ciò non fosseevangelico, né puro dai secondi fini, poiché non pochi di essi coi lor tristi esempi faceano ad un tempo l'elogio della condotta mia, e la satira della loro propria. La cosa era dunque, non figlia di vera religione e virtú, ma di vendette e raggiri. Quindi, appena ritornò in Roma il cognato, egli per l'organo de' suoi preti intimò alla signora: che era cosa oramai indispensabile, e convenuta tra lui e il fratello, che s'interrompesse quella mia assiduità presso lei; e ch'egli non la sopporterebbe ulteriormente. Quindi codesto personaggio, impetuoso sempre ed irriflessivo, quasi che s'intendesse con questi modi di trattare la cosa piú decorosamente, ne fece fare uno scandaloso schiamazzio per la città tutta, parlandone egli stesso con molti, e inoltrandone le doglianze sino al papa. Corse allora grido, che il papa su questo riflesso mi avesse fatto o persuadere o ordinare di uscir di Roma; il che non fu vero; ma facilmente avrebbe potuto farlo, mercè la libertà italica. Io però, ricordatomi allora, come tanti anni prima essendo in Accademia, e portando, com'io narrai, la parrucca, sempre aveva antivenuto i nemici sparruccandomi da me stesso, prima ch'essi me la levasser di forza; antivenni allora l'affronto dell'esser forse fatto partire, col determinarmivi spontaneamente. A quest'effetto io fui dal ministro nostro di Sardegna, pregandolo di far partecipe il segretario di Stato, che io informato di tutto questo scandalo, troppo avendo a cuore il decoro, l'onore, e la pace di una tal donna, aveva immediatamente presa la determinazione di allontanarmene per del tempo, affine di far cessare le chiacchiere; e che verso il principio del prossimo maggio sarei partito. Piacque al ministro, e fu approvata dal segretario di Stato, dal papa e da tutti quelli che seppero il vero, questa mia spontanea, e dolorosa risoluzione. Onde mi preparai alla crudelissima dipartenza. A questo passo m'indusse la trista ed orribile vita alla quale prevedeva di dover andare incontro, ove io mi fossi pure rimasto in Roma, ma senza poter continuare di vederla in casa sua, ed esponendola ad infiniti disgusti e guai, se in altri luoghi con affettata pubblicità, ovvero con inutile e indecoroso mistero, l'avessi assiduamente combinata. Ma il rimaner poi entrambi in Roma senza punto vederci, era per me un tal supplizio, ch'io per minor male, d'accordo con essa, mi elessi la lontananza aspettando migliori tempi.

Il quattro di maggio dell'anno 1783, che sempre mi sarà ed è stato finora di amarissima ricordanza, io mi allontanai adunque da quella piú che metà di me stesso. E di quattro o cinque separazioni che mi toccarono da essa, questa fu la piú terribile per me, essendo ogni speranza di rivederla pur troppo incerta e lontana.

Questo avvenimento mi tornò a scomporre il capo per forse due anni, e m'impedí, ritardò e guastò anche notabilmente sotto ogni aspetto i miei studi. Nei due anni di Roma io aveva tratto una vita veramente bella. La Villa Strozzi, posta alle Terme Diocleziane, mi avea prestato un delizioso ricovero. Le lunghe intere mattinate io ve le impiegava studiando, senza muovermi punto di casa se non se un'ora o due cavalcando per quelle solitudini immense che in quel circondario disabitato di Roma invitano a riflettere, piangere, e poetare. La sera scendeva nell'abitato, e ristorato dalle fatiche dello studio con l'amabile vista di quella per cui sola io esisteva e studiava, me ne ritornava poi contento al mio eremo, dove al piú tardi all'undici della sera io era ritirato. Un soggiorno piú gaio e piú libero e piú rurale, nel recinto d'una gran città, non si potea mai trovare; né il piú confacente al mio umore, carattere ed occupazioni. Me ne ricorderò, e lo desidererò, finch'io viva.

Lasciata dunque in tal modo la mia unica donna, i miei libri, la villa, la pace, e me stesso in Roma, io me n'andava dilungando in atto d'uomo quasi stupido ed insensato. M'avviai verso Siena, per ivi lagrimare almeno liberamente per qualche giorni in compagnia dell'amico. Né ben sapeva ancora in me stesso, dove anderei, dove mi starei, quel che mi farei. Mi riuscí d'un grandissimo sollievo il conversar con quell'uomo incomparabile; buono, compassionevole, e con tanta altezza e ferocia di sensi, umanissimo. Né mai si può veramente ben conoscere il pregio e l'utilità d'un amico verace, quanto nel dolore. Io credo, che senz'esso sarei facilmente impazzato. Ma egli, vedendo in me un eroe cosí sconciamente avvilito e minor di sé stesso; ancorché ben intendesse per prova i nomi e la sostanza di fortezza e virtú, non volle con tutto ciò crudelmente ed inopportunamente opporre ai deliri miei la di lui severa e gelata ragione; bensí seppe egli scemarmi, e non poco, il dolore, col dividerlo meco. Oh rara, oh celeste dote davvero; chi sappia ragionare ad un tempo, e sentire!

Ma io frattanto, menomate o sopite in me tutte le mie intellettuali facoltà, altra occupazione, altro pensiero non ammetteva, che lo scrivere lettere, e in questa terza lontananza che fu la piú lunga, scrissi veramente dei volumi, né quello ch'io mi scrivessi, il saprei: io sfogava il dolore, l'amicizia, l'amore, l'ira e tutti in somma i cotanti e diversi, e indomiti affetti d'un cuor traboccante, e d'un animo mortalmente piagato. Ogni cosa letteraria mi si andava ad un tempo stesso estinguendo nella mente, e nel cuore; a tal segno, che varie lettere ch'io avea ricevute di Toscana nel tempo de' miei disturbi in Roma, le quali mi mordeano non poco su le stampate tragedie, non mi fecero la minima impressione per allora, non piú che se delle tragedie d'un altro mi avessero favellato. Erano queste lettere, qualcuna scritta con sale e gentilezza, le piú insulsamente e villanamente; alcune firmate, altre no; e tutte concordavano nel biasimare quasi che esclusivamente il mio stile, tacciandomelo di durissimo, oscurissimo, stravagantissimo, senza però volermi, o sapermi, individuare gran fatto il come, il dove, il perché. Giunto poi in Toscana, l'amico per divagarmi dal mio unico pensamento, mi lesse nei foglietti di Firenze e di Pisa, chiamati Giornali, il commento delle predette lettere, che mi erano state mandate in Roma. E furono codesti i primi cosí detti giornali letterari che in qualunque lingua mi fossero capitati mai agli orecchi né agli occhi. E allora soltanto penetrai nei recessi di codesta rispettabile arte, che biasima o loda i diversi libri con eguale discernimento, equità, e dottrina, secondo che il giornalista è stato prima o donato, o vezzeggiato, o ignorato, o sprezzato dai rispettivi autori. Poco m'importò, a dir vero, di codeste venali censure, avendo io allora l'animo interamente preoccupato da tutt'altro pensiero.

Dopo circa tre settimane di soggiorno in Siena, nel qual tempo non trattaividi altri che l'amico, la temenza di rendermi troppo molesto a lui, poiché tanto pur l'era a me stesso; l'impossibilità di occuparmi in nulla, e la solita impazienza di luogo che mi dominava tosto di bel nuovo al riapparire della noia e dell'ozio: tutte queste ragioni mi fecero risolvere di muovermi viaggiando. Si avvicinava la festa solita dell'Ascensa in Venezia, che io avea già veduta molti anni prima; e mi avviai. Passai per Firenze di volo, ché troppo mi accorava l'aspetto di quei luoghi che mi aveano già fatto beato, e che ora mi rivedevano angustiato ed oppresso. Il moto del cavalcare massimamente, e tutti gli altri strapazzi e divagazioni del viaggio, mi giovarono, se non altro, alla salute moltissimo, la quale molto mi era andata alterando da tre mesi in poi pe' tanti travagli d'animo, d'intelletto, e di cuore. Di Bologna mi deviai per visitare in Ravenna il sepolcro del Poeta, e un giorno intero vi passai fantasticando, pregando, e piangendo. In questo viaggio di Siena a Venezia mi si dischiuse veramente una nuova e copiosissima vena delle rime affettuose, e quasi ogni giorno uno o piú sonetti mi si facean fare, affacciandosi con molto impeto e spontaneità alla mia agitatissima fantasia. In Venezia poi, allorché sentii pubblicata e assodata la pace tra gli americani e l'Inghilterra, pattuitavi la loro indipendenza totale, scrissi la quinta ode dell'America libera, con cui diedi compimento a quel lirico poemetto. Di Venezia venuto a Padova, questa volta non trascurai come nelle due altre anteriori, di visitare la casa e la tomba del nostro sovrano maestro d'amore in Arquà. Quivi parimente un giorno intero vi consecrai al pianto, e alle rime, per semplice sfogo del troppo ridondante mio cuore. In Padova poi imparai a conoscere di persona il celebre Cesarotti, dei di cui modi vivaci e cortesi non rimasi niente men soddisfatto, che il fossi stato sempre della lettura de' suoi maestrevolissimi versi nell'Ossian. Di Padova ritornai a Bologna, passando per Ferrara, affine di quivi compiere il mio quarto pellegrinaggio poetico, col visitarvi la tomba, e i manoscritti dell'Ariosto. Quella del Tasso piú volte l'avea visitata in Roma; cosí la di lui culla in Sorrento, dove nell'ultimo viaggio di Napoli, mi era espressamente portato ad un tale effetto. Questi quattro nostri poeti, erano allora, e sono, e sempre saranno i miei primi, e direi anche soli, di questa bellissima lingua: e sempre mi è sembrato che in essi quattro vi sia tutto quello che umanamente può dare la poesia; meno però il meccanismo del verso sciolto di dialogo, il quale si dee però trarre dalla pasta di questi quattro, fattone un tutto, e maneggiatolo in nuova maniera. E questi quattro grandissimi, dopo sedici anni oramai ch'io li ho giornalmente alle mani, mi riescono sempre nuovi, sempre migliori nel loro ottimo, e direi anche utilissimi nel loro pessimo; ché io non asserirò con cieco fanatismo, che tutti e quattro a luoghi non abbiano e il mediocre ed il pessimo; dirò bensí che assai, ma assai, vi si può imparare anche dal loro cattivo; ma da chi ben si addentra nei loro motivi e intenzioni: cioè da chi, oltre l'intenderli pienamente e gustarli, li sente.

Di Bologna, sempre piangendo e rimando, me n'andai a Milano; e di , trovandomi cosí vicino al mio carissimo abate di Caluso, che allora villeggiava co' suoi nipoti nel bellissimo loro castello di Masino poco distante da Vercelli, ci diedi una scorsa di cinque o sei giorni. E in uno di quelli, trovandomi anche tanto vicino a Torino, mi vergognai di non vi dare una scorsa per abbracciar la sorella. V'andai dunque per una notte sola coll'amico, e l'indomani sera ritornammo a Masino. Avendo abbandonato il paese mio colla donazione, in aspetto di non lo voler piú abitare, non mi vi volea far vedere cosí presto, e massime dalla corte. Questa fu la ragione del mio apparire e sparire in un punto. Onde questa scorsa cosí rapida che a molti potrebbe parere bizzarra, cesserà d'esserlo saputane la ragione. Erano già sei e piú anni, ch'io non dimorava piú in Torino; non mi vi parea esseresicuro, né quieto, né libero; non ci voleva, né doveva, né potea rimanervi lungamente.

Di Masino, tosto ritornai a Milano, dove mi trattenni ancora quasi tutto luglio; e ci vidi assai spesso l'originalissimo autore del Mattino, vero precursore della futura satira italiana. Da questo celebre e colto scrittore procurai d'indagare, con la massima docilità, e con sincerissima voglia d'imparare, dove consistesse principalmente il difetto del mio stile in tragedia. E Parini con amorevolezza e bontà mi avvertí di varie cose, non molto a dir vero importanti, e che tutte insieme non poteano mai costituire la parola stile, ma alcune delle menome parti di esso. Ma le piú, od il tutto di queste parti che doveano costituire il vero difettoso nello stile, e che io allora non sapeva ancor ben discernere da me stesso, non mi fu mai saputo o voluto additare né dal Parini, né dal Cesarotti, né da altri valenti uomini ch'io col fervore e l'umiltà d'un novizio visitai ed interrogai in quel viaggio per la Lombardia. Onde mi convenne poi dopo il decorso di molti anni con molta fatica ed incertezza andar ritrovando dove stesse il difetto, e tentare di emendarlo da me. Sul totale però, di qua dell'Appennino le mie tragedie erano piaciute assai piú che in Toscana; e vi s'era anche biasimato lo stile con molto minore accanimento e qualche piú lumi. Lo stesso era accaduto in Roma ed in Napoli, presso quei pochissimi che l'aveano volute leggere. Egli è dunque un privilegio antico della sola Toscana, di incoraggire in questa maniera gli scrittori italiani, allorché non iscrivono delle cicalate.

 

 

 




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