Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

IntraText CT - Lettura del testo

Precedente - Successivo

Clicca qui per nascondere i link alle concordanze

CAPITOLO DUODECIMO

Terzo viaggio in Inghilterra, unicamente per comperarvi cavalli.

 

Verso la metà d'ottobre lasciai dunque Siena, e partendo alla volta di Genova, per Pisa e Lerici, l'amico Gori mi fece compagnia sino a Genova. Quivi dopo due o tre giorni ci separammo; egli ripartí per la Toscana, io m'imbarcai per Antibo. Rapidissimamente e con qualche pericolo feci quel tragitto in poco piú di diciott'ore. Né senza un qualche timore passai quella notte. La filucca era piccola; c'aveva imbarcata la carrozza, la quale faceva squilibrio; il vento ed il mare gagliardissimi; ci stetti assai male. Sbarcato, ripartii per Aix, dove non mi trattenni, né mi arrestai sino in Avignone, dove mi portai con trasporto a visitare la magica solitudine di Valchiusa, e Sorga ebbe assai delle mie lagrime, non simulate e imitative, ma veramente di cuore e caldissime. Feci in quel giorno nell'andare e tornare di Valchiusa in Avignone quattro sonetti; e fu quello per me l'un dei giorni i piú beati e nello stesso tempo dolorosi, ch'io passassi mai. Partito d'Avignone volli visitare la celebre Certosa di Grenoble, e per tutto spargendo lagrime andava raccogliendo rime non poche, tanto ch'io pervenni per la terza volta in Parigi; e sempre lo stessissimo effetto mi fece questa immensissima fogna; ira e dolore. Statovi circa un mese, che mi parve un secolo, ancorché vi avessi recate varie lettere per molti letterati d'ogni genere, mi disposi nel decembre a passare in Inghilterra. I letterati francesi son quasi tutti presso che interamente digiuni della nostra letteratura italiana, né oltrepassano l'intelligenza del Metastasio. Ed io poi non intendendo nulla né volendo saper della loro, non avea luogo discorso tra noi. Bensí arrabbiatissimo io in me stesso di essermi rimesso nel caso di dover riudire e riparlare quell'antitoscanissimo gergo nasale, affrettai quanto piú potei il momento di allontanarmene. Il fanatismo ebdomadario di quel poco tempo ch'io mi vi trattenni, era allora il pallon volante; e vidi due delle prime e piú felici esperienze delle due sorti di esso, l'uno di aria rarefatta ripieno; l'altro, d'aria infiammabile ed entrambi portanti per aria due persone ciascuno. Spettacolo grandioso e mirabile; tema piú assai poetico che storico, e scoperta, a cui per ottenere il titolo di sublime, altro non manca finora che la possibilità o verisimiglianza di essere adattata ad una qualche utilità. Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch'io cominciai a comprar dei cavalli; prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro, e successivamente essendomene o andati male o morti vari polledri, ricomprandone due per un che morisse, in tutto il marzo dell'anno '84, me ne trovai rimanere quattordici. Questa rabidissima passione, che in me avea covato sotto cenere oramai quasi sei anni, mi si era per quella lunga privazione totale, o parziale, dispettosamente riaccesa nel cuore e nella fantasia, che recalcitrando contro gli ostacoli, e vedendo che di dieci compratine, cinque mi eran venuti meno in poco tempo, arrivai a quattordici; come pure a quattordici avea spinte le tragedie, non ne volendo da prima che sole dodici. Queste mi spossarono la mente; quelli la borsa; ma la divagazione dei molti cavalli mi restituí la salute e l'ardire di fare poi in appresso altre tragedie ed altr'opere. Furono dunque benissimo spesi quei molti danari, poiché ricomprai anche con essi il mio impeto e brio, che a piedi languivano. E tanto piú feci bene di buttar quei danari, poiché me li trovava aver sonanti. Dalla donazione in poi, avendo io vissuti i primi quasi tre anni con sordidezza, ed i tre ultimi con decente ma moderata spesa; mi ritrovava allora una buona somma di risparmio, tutti i frutti dei vitalizi di Francia, cui non avea mai toccati. Quei quattordici amici me ne consumarono gran parte nel farsi comprare e trasferire in Italia; ed il rimanente poi me ne consumarono in cinque anni consecutivi nel farsi mantenere; che usciti una volta dalla loro isola, non vollero piú morire nessuno, ed io affezionatomi ad essi non ne volli vender nessuno. Incavallatomi dunque pomposamente, dolente nell'animo per la mia lontananza dalla sola motrice d'ogni mio savio ed alto operare, io non trattavacercava mai nessuno; o me ne stava co' miei cavalli, o scrivendo lettere su lettere su lettere. In questo modo passai circa quattro mesi in Londra; né alle tragedie pensava altrimenti che se non l'avessi né pure ideate mai. Soltanto mi si affacciava spesso fra me e me quel bizzarro rapporto di numeri fra esse e le mie bestie: e ridendo mi dicea: «Tu ti sei guadagnato un cavallo per ogni tragedia»; pensando ai cavalli che a suono di sferza ci somministrano i nostri Orbili pedagogi, quando facciamo nelle scuole una qualche trista composizione.

Cosí vissi io vergognosamente in un ozio vilissimo per mesi e mesi; smettendo ogni piú anche il leggere i soliti poeti, e insterilita anco affatto la vena delle rime; tal che in tutto il soggiorno di Londra non feci che un solo sonetto, e due poi al partire. Avviatomi nell'aprile con quella numerosa carovana, venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in Siena. Ma molto è piú facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l'eseguirla con tante bestie. Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare: l'uno zoppicava, all'altro si gonfiavan le gambe, all'altro si sgretolavan gli zoccoli, e che so io; egli era un oceano continuo di guai, ed io n'era il primo martire. E quel passo di mare, per trasportarli di Douvres, vedermeli tutti come pecore in branco posti per zavorra della nave, avviliti, sudicissimi da non piú si distinguere neppure il bell'oro dei loro vistosi mantelli castagni; e tolte via alcune tavole che li facean da tetto, vederli poi in Calais, prima che si sbarcassero, servire i loro dossi di tavole ai grossolani marinai che camminavan sopra di loro come se non fossero stati vivi corpi, ma una vile continuazione di pavimento; e poi vederli tratti per aria da una fune con le quattro gambe spenzolate, e quindi calati nel mare, perché stante la marea non poteva la nave approdare sino alla susseguente mattina; e se non si sbarcavano cosí quella sera, conveniva lasciarli poi tutta la notte in quella scomoda positura imbarcati; insomma vi patii pene continue di morte. Ma pure tanta fu la sollecitudine, e l'antivedere, e il rimediare, e l'ostinatamente sempre badarci da me, che fra tante vicende, e pericoli, ed incommoducci, li condussi senza malanni importanti tutti salvi a buon porto.

Confesserò anche pel vero, che io passionatissimo su questo fatto, ci aveva anche posta una non meno stolta che stravagante vanità; talché quando in Amiens, in Parigi, in Lione, in Torino, e altrove que' miei cavalli erano trovati belli dai conoscitori, io me ne rimpettiva e teneva come se li avessi fatti io. Ma la piú ardua ed epica impresa mia con quella carovana fu il passo dell'Alpi fra Laneborgo, e la Novalesa. Molta fatica durai nel ben ordinare ed eseguire la marcia loro, affinché non succedesse disgrazia nessuna a bestie grosse, e piuttosto gravi, in una strettezza e malagevolezza grande di quei rompicolli di strade. E siccome assai mi compiacqui nell'ordinarla, mi permetta anco il lettore ch'io mi compiaccia alquanto in descriverla. Chi non la vuole, la passi; e chi la vorrà pur leggere, badi un po' s'io meglio sapessi distribuire la marcia di quattordici bestie fra quelle Termopili, che non i cinque atti d'una tragedia.

Erano que' miei cavalli, attesa la lor giovinezza, e le mie cure paterne, e la moderata fatica, vivaci e briosi oltre modo; onde tanto piú scabro riusciva il guidarli illesi per quelle scale. Io presi dunque in Laneborgo un uomo per ciascun cavallo, che lo guidasse a piedi per la briglia cortissimo. Ad ogni tre cavalli, che l'uno accodato all'altro salivano il monte bel bello, coi loro uomini, ci avea interposto uno dei miei palafrenieri che cavalcando un muletto invigilava su i suoi tre che lo precedevano. E cosí via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per rimediare ai piedi che si venissero a sferrare, che era il maggior pericolo in quei sassacci. Io poi, come capo dell'espedizione, veniva ultimo, cavalcando il piú piccolo e il piú leggiero de' miei cavalli, Frontino, e, mi tenea alle due staffe due aiutanti di strada, pedoni sveltissimi, ch'io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de' miei comandi. Giunti in tal guisa felicissimamente in cima del Monsenigi, quando poi fummo allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e affrettare il passo, e sconsideratamente anco saltellare, io mutai di posto, e sceso di cavallo mi posi in testa di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia; e per maggiormente anche ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli i piú gravi e piú grossi; e gli aiutanti correano intanto su e giú per tenerli tutti insieme senza intervallo nessuno; altro che la dovuta distanza. Con tutte queste diligenze mi si sferrarono nondimeno tre piedi a diversi cavalli, ma le disposizioni eran esatte, che immediatamente il maniscalco li poté rimediare, e tutti giunsero sani e salvi alla Novalesa, coi piedi in ottimo essere, e nessunissimo zoppo. Queste mie chiacchiere potranno servire di norma a chi dovesse passare o quell'Alpe, o altra simile, con molti cavalli. Io, quant'a me, avendo felicemente diretto codesto passo, me ne teneva poco meno che Annibale per averci un poco piú verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi schiavi ed elefanti. Ma se a lui costò molt'aceto, a me costò del vino non poco, che tutti coloro, e guide, e maniscalchi, e palafrenieri, e aiutanti, si tracannarono.

Col capo ripieno traboccante di queste inezie cavalline, e molto scemo di ogni utile e lodevole pensamento, arrivai in Torino in fin di maggio, dove soggiornai circa tre settimane, dopo sette e piú anni che vi avea smesso il domicilio. Ma i cavalli, che per la troppa continuità cominciavano talvolta a tediarmi, dopo sei, o otto giorni di riposo, li spedii innanzi alla volta della Toscana, dove li avrei raggiunti. Ed intanto voleva un poco respirare da tante brighe, e fatiche, e puerilità, poco in vero convenevoli ad un autor tragico in età di anni trentacinque suonati. Con tutto ciò quella divagazione, quel moto, quell'interruzione totale d'ogni studio mi aveva singolarmente giovato alla salute; ed io mi trovava rinvigorito, e ringiovenito di corpo, come pur troppo ringiovenito anche di sapere e di senno, i cavalli mi aveano a gran passi ricondotto all'asino mio primitivo. E tanto mi era già di bel nuovo irrugginita la mente, ch'io mi riputava ora mai nella totale impossibilità di nulla piú ideare, né scrivere.

 

 

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License