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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO DECIMOQUINTO

Soggiorno in Pisa. Scrittovi il Panegirico a Traiano ed altre cose.

 

La mia donna frattanto era per le Alpi della Savoia rientrata 1785 anch'essa in Italia; e per la via di Torino venuta a Genova, quindi a Bologna, in quest'ultima città si propose di passare l'inverno; combinandosi in questo modo per lei di stare negli Stati Pontificii, senza pure rimettersi in Roma nell'usato carcere. Sotto il pretesto dunque della stagione troppo inoltrata, sendo giunta a Bologna in decembre, non ne partí altrimenti. Eccoci dunque, io a Pisa, ed essa in Bologna, col solo Apennino di mezzo, per quasi cinque mesi, di nuovo disgiunti e pur vicinissimi. Questo m'era ad un tempo stesso una consolazione e un martirio; ne ricevea le nuove freschissime ogni tre o quattro giorni, e non potea puredoveva in niun modo tentar di vederla, atteso il gran pettegolezzo delle città piccole d'Italia, dove chi nulla nulla esce dal volgo, è sempre minutamente osservato dai molti oziosi e maligni. Io mi passai dunque in Pisa quel lunghissimo inverno, col solo sollievo delle di lei spessissime lettere, e perdendo al solito il mio tempo fra i molti cavalli, e quasi nulla servendomi dei pochi ma fidi miei libri. Sforzato pure dalla noia, e nell'ore che cavalcare ed aurigare non si poteva, tanto e tanto qualcosa andava pur leggicchiando, massime la mattina in letto, appena sveglio. In queste semiletture avea scorse le lettere di Plinio il Minore, e molto mi avean dilettato per la loro eleganza, per le molte notizie su le cose e costumi romani che vi si imparano; oltre poi il purissimo animo, e la bella ed amabile indole che vi va sviluppando l'autore. Finite l'epistole, impresi di leggere il Panegirico a Traiano, opera che mi era nota per fama, ma di cui non avea mai letta parola. Inoltratomi per alcune pagine, e non vi ritrovando quell'uomo stesso dell'epistole, e molto meno un amico di Tacito, qual egli si professava, io sentii nel mio intimo un certo tal moto d'indegnazione; e tosto, buttato il libro saltai a sedere sul letto, dov'io giaceva nel leggere; ed impugnata con ira la penna, ad alta voce gridando dissi a me stesso: "Plinio mio, se tu eri davvero e l'amico, e l'emulo, e l'ammiratore di Tacito, ecco come avresti dovuto parlare a Traiano". E senza piú aspettare, né riflettere, scrissi d'impeto, quasi forsennato, cosí come la penna buttava, circa quattro gran pagine del mio minutissimo scritto; finché stanco, e disebriato dallo sfogo delle versate parole, lasciai di scrivere, e quel giorno non vi pensai piú. La mattina dopo, ripigliato il mio Plinio, o per dir meglio, quel Plinio che tanto mi era scaduto di grazia nel giorno innanzi, volli continuar di leggere il di lui Panegirico. Alcune poche pagine piú, facendomi gran forza, ne lessi; poi non mi fu possibile di proseguire, Allora volli un po' rileggere quello squarcione del mio Panegirico, ch'io avea scritto delirando la mattina innanzi. Lettolo, e piaciutomi, e rinfiammato piú di prima, d'una burla ne feci, o credei farne, una cosa serissima; e distribuito e diviso alla meglio il mio tema, senza piú ripigliar fiato, scrivendone ogni mattina quanto ne potevan gli occhi, che dopo un par d'ore di entusiastico lavoro non mi fanno piú luce; e pensandovi poi e ruminandone tutto l'intero giorno, come sempre mi accade allorché non so chi mi questa febbre del concepire e comporre; me lo trovai tutto steso nella quinta mattina, dal 13 al 17 di marzo! e, con pochissima varietà, toltone l'opera della lima, da quello che va dattorno stampato.

Codesto lavoro mi avea riacceso l'intelletto, ed una qualche tregua avea pur anche data ai miei tanti dolori. Ed allora mi convinsi per esperienza, che a voler tollerare quelle mie angustie d'animo, ed aspettarne il fine senza soccombere, mi era piú che necessario di farmi forza, e costringer la mente ad un qualche lavoro. Ma siccome la mente mia, piú libera e piú indipendente di me, non mi vuole a niun conto obbedire; tal che, se io mi fossi proposto, prima di leggere il Plinio, di voler fare un panegirico a Traiano, non avrebbe essa forse voluto raccozzar due idee; per ingannare ad un tempo e il dolore e la mente, trovai il compenso di violentarmi in una qualche opera di pazienza, e di schiena come si suol dire. Perciò tornatomi fra mani quel Sallustio che circa dieci anni prima aveva tradotto in Torino per semplice studio, lo feci ricopiare col testo accanto, e mi posi seriamente a correggerlo, coll'intenzione e speranza ch'egli riuscisse una cosa. Ma neppure per questo pacifico lavoro io sentiva il mio animo capace di continua e tranquilla applicazione; onde non lo migliorai di gran fatto, anzi mi avvidi, che nel bollore e deliri d'un cuore preoccupato e scontento, riesce forse piú possibile il concepire e creare una cosa breve e focosa, che non il freddamente limare una cosa già fatta. La lima è un tedio, onde facilmente si pensa ad altro, adoprandola. La creazione è una febbre, durante l'accesso, non si sente altro che lei. Lasciato dunque il Sallustio a tempi piú lieti, mi rivolsi a continuar quella prosa Del principe e delle lettere, da me ideata, e distribuita piú anni prima in Firenze. Ne scrissi allora tutto il primo libro, e due o tre capitoli del secondo.

Fin dall'estate antecedente, al mio tornare d'Inghilterra in Siena, io aveva pubblicato il terzo volume delle tragedie, e mandatolo, come a molti altri valentuomini d'Italia, anche all'egregio Cesarotti, pregandolo di darmi un qualche lume sovra il mio stile e composizione e condotta. Ne ricevei in quell'aprile una lettera critica su le tre tragedie del terzo volume, alla quale risposi allora brevemente, ringraziandolo, e notando le cose che mi pareano da potersi ribattere; e ripregandolo di indicarmi o darmi egli un qualche modello di verso tragico. E da notarsi su ciò, che quello stesso Cesarotti, il quale aveva concepiti ed eseguiti con tanta maestria i sublimi versi dell'Ossian, essendo stato richiesto da me, quasi due anni prima, di volermi indicare un qualche modello di verso sciolto di dialogo, egli non si vergognò di parlarmi d'alcune sue traduzioni dal francese, della Semiramide e del Maometto di Voltaire, stampate già da molti anni; e di tacitamente propormele per modello. Queste traduzioni del Cesarotti essendo in mano di chiunque le vorrà leggere, non occorre ch'io aggiunga riflessioni su questo particolare; ognuno se ne può far giudice e paragonare quei versi tragici con i miei; e paragonarli anche con i versi epici dello stesso Cesarotti nell'Ossian, e vedere se paíano della stessa officina. Ma questo fatto servirà pure a dimostrare quanto miserabil cosa siamo noi tutti uomini, e noi autori massimamente, che sempre abbiam fra le mani e tavolozza e pennello per dipingere altrui, ma non mai lo specchio per ben rimirarci noi stessi e conoscerci.

Il giornalista di Pisa, dovendo poi dare o inserire nel suo giornale un giudizio critico su quel mio terzo tomo delle tragedie, stimò piú breve e piú facil cosa il trascrivere a dirittura quella lettera del Cesarotti, con le mie note che le servono di risposta. Io mi trattenni in Pisa sino a tutto l'agosto di quell'anno 1785; e non vi feci piú nulla da quelle prose in poi, fuorché far ricopiare le dieci tragedie stampate, ed apporvi in margine molte mutazioni, che allora mi parvero soverchie; ma quando poi venni a ristamparle in Parigi, elle mi vi parvero piú che insufficienti, e bisognò per lo meno quadruplicarle. Nel maggio di quell'anno godei in Pisa del divertimento del Giuoco del Ponte, spettacolo bellissimo, che riunisce un non so che di antico e d'eroico. Vi si aggiunse anco un'altra festa bellissima d'un altro genere, la luminara di tutta la detta città, come si costuma ogni due anni per la festa di San Ranieri. Queste feste si fecero allora riunitamente, all'occasione della venuta del re e regina di Napoli in Toscana per visitarvi il gran duca Leopoldo, cognato del suddetto re. La mia vanaglorietta in quelle feste rimase bastantemente soddisfatta, essendomi io fatto molto osservare a cagione de' miei be' cavalli inglesi, che vincevano in mole, bellezza e brio quanti altri mai cavalli vi fossero capitati in codest'occasione. Ma in mezzo a quel mio fallace e pueril godimento, mi convinsi con sommo dolore ad un tempo stesso, che nella fetida e morta Italia ella era assai piú facil cosa il farsi additare per via di cavalli, che non per via di tragedie.

 

 

 




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