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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO DECIMOSETTIMO

Viaggio a Parigi. Ritorno in Alsazia, dopo aver fissato col Didot in Parigi la stampa di tutte le diciannove tragedie. Malattia fierissima in Alsazia, dove l'amico Caluso era venuto per passare l'estate con noi.

 

Dopo quattordici e piú mesi non interrotti di soggiorno in Alsazia, partii insieme con la signora alla volta di Parigi; luogo a me per natura sua e mia sempre spiacevolissimo, ma che mi si facea allor paradiso poiché lo abitava la mia donna. Tuttavia, essendo incerto se vi rimarrei lungamente, lasciai gli amati cavalli nella villa di Alsazia, e munito soltanto di alcuni libri, e di tutti i miei scritti mi ritrovai in Parigi. Alla prima, il rumore e la puzza di quel caos dopo una lunga villeggiatura, mi rattristarono assai. La combinazione poi del ritrovarmi alloggiato assai lontano dalla mia donna, oltre mill'altre cose che di quella Babilonia mi dispiaceano sommamente, mi avrebbero fatto ripartirne ben tosto se io avessi vissuto in me stesso e per me; ma ciò non essendo da tanti anni oramai, con molta malinconia mi adattai alla necessità; e cercai di cavarne almeno qualche utile coll'impararvi qualche cosa. Ma quanto all'arte del verseggiare non v'essendo in Parigi nessuno dei letterati che intenda piú che mediocremente la lingua nostra, non c'era niente da impararvi per me; quanto poi all'arte drammatica in massa, ancorché i francesi vi si accordino essi stessi esclusivamente il primato, tuttavia i miei principî non essendo gli stessi che han praticato i loro autori tragici, molta e troppa flemma mi ci volea per sentirmi dettare magistralmente continue sentenze, di cui molte vere, ma assai male eseguite da essi. Pure, essendo il mio metodo di poco contradire, e non mai disputare, e moltissimo e tutti ascoltare, e non credere poi quasiché mai in nessuno; io tanto e tanto imparava da quei ciarlieri la sublime arte del tacere.

Quel primo soggiorno, di sei e piú mesi in Parigi, mi giovò, se non altro, alla salute moltissimo. Prima del mezzo giugno si ripartí per la villa d'Alsazia. Ma intanto stando in Parigi avea verseggiato il Bruto primo, e per un accidente assai comico mi era toccato di rimpasticciare tutta intera la Sofonisba. La volli leggere ad un francese già mio conoscente in Torino, dove aveva soggiornato degli anni; persona intelligente di cose drammatiche; e che piú anni prima mi avea ben consigliato sul Filippo, quando glie lo aveva letto in prosa francese, di trasporvi il consiglio dal quarto atto dov'era, nel terzo dove poi è rimasto, e dove nuoce assai meno alla progressione dell'azione, di quel che dianzi nuoceva nel quarto. Sicché leggendo io quella Sofonisba ad un giudice competente, mi immedesimava in lui quant'io piú poteva, per argomentare dal di lui contegno piú che dai di lui detti, qual fosse il suo schietto parere. Egli mi stava ascoltando senza batter palpebra; ma io, che altresí mi stava ascoltando per due, incominciai da mezzo il second'atto a sentirmi assalire da una certa freddezza, che talmente mi andò crescendo nel terzo ch'io non lo potei pur finire; e preso da un impeto irresistibile la buttai sul fuoco, ché stavamo al camminetto noi due solissimi; e parea che quel fuoco mi fosse come un tacito invito a quella severa e pronta giustizia. L'amico, sorpreso di quell'inaspettata stranezza (stante che io non avea neppur detto una parola fino a quel punto, che l'accennasse neppure), si buttò colle mani su lo scartario per estrarlo dal fuoco, ma io già colle molle che aveva rapidissimamente impugnate, inchiodai stizzosamente la povera Sofonisba fra i due o tre pezzi che ardevano, che le convenne ardere anch'essa; né abbandonai, da esperto carnefice, le molle, se non se quando la vidi ben avvampante e abbronzita andarsi sparpagliando su per la gola del camminetto. Questo moto frenetico fu fratello carnale di quello di Madrid contro il povero Elia, ma ne arrossisco assai meno, e mi riuscí d'un qualche utile. Mi confermai allora nell'opinione ch'io aveva piú volte concepita su quel soggetto di tragedia; ch'egli era sgradito, traditore, appresentante alla prima un falso aspetto tragico, e non lo mantenendo poi saldo; e feci quasi proposito di non vi pensar altrimenti. Ma i propositi d'autore son come gli sdegni materni. Mi ricadde due mesi dopo quell'infelice prosa della giustiziata Sofonisba fra mani, e rilettala, trovandovi pure qualche cosa di buono, la ripigliai a verseggiare, abbreviandola assai, e tentando con lo stile di supplire e mascherare le mende inerenti al soggetto. E benché io sapessi, e sappia, ch'ella non era né sarebbe mai tragedia di prim'ordine, non ebbi con tutto ciò il coraggio di porla da parte, perché era il solo soggetto in cui si potessero opportunamente sviluppare gli altri sensi delle sublimi Cartagine e Roma. Onde di varie scene di quella debole tragedia, io mi pregio non poco.

Ma la totalità delle mie tragedie parendomi a quell'epoca essersi fatta oramai cosa matura per una stampa generale, mi proposi allora di voler almeno cavar questo frutto dal mio soggiorno che sarei per fissare d'allora in poi in Parigi, di farne una edizione bella, accurata, a bell'agio, senza risparmio nessuno né di spesa né di fatica. Prima dunque di decidermi per questo o per quello degli stampatori volli fare una prova dei caratteri, e proti, e maneggi tipografici parigini, trattandosi di una lingua forestiera. Trovandomi sin dall'anno innanzi dettato e corretto il Panegirico a Traiano, lo stampai a quest'effetto, ed essendo cosa breve, in un mesetto fu terminato. E saviamente feci di tentar quella prova, avendo poi cambiato lo stampatore assai in meglio per tutti i versi. Onde, accordatomi con Didot Maggiore, uomo intendentissimo ed appassionato dell'arte sua, ed oltre ciò accurato molto, e sufficientemente esperto nella lingua italiana, io cominciai sin dal maggio di quell'anno 1787 a stampare il primo volume delle tragedie. Ma incominciai per impegnare me e lui, piú che per altro; sapendo benissimo, che dovendo io partire nel giugno per trattenermi in Alsazia fino all'inverno, la stampa in quel frattempo non progredirebbe gran fatto; ancorché si prendessero le misure per farmi avere settimanalmente le prove da correggersi in Alsazia, e rimandarsi in Parigi. In questo modo io mi legai da me stesso doppiamente a dover ritornare l'inverno in Parigi, cosa alla quale sentiva ripugnanza non poca; volli perciò, che mi vi dovessero costringere parimente e la gloria e l'amore. Lasciai al Didot il manoscritto delle prose che precedono, e quello delle tre prime tragedie, ch'io stupidamente credei ridotte, limate, e accurate quanto potessero essere; me n'avvidi poi, quando fu posto mano a stamparle, quanto io mi fossi ingannato.

Oltre l'amor della quiete, l'amenità della villa, l'essere quivi piú lungamente con la mia donna, alloggiato sotto lo stesso tetto; l'avervi i miei libri, e gli amati cavalli; tutti questi oggetti erano caldissimi sproni al farmi ritornare con delizia in Alsazia. Ma un'altra ragione vi si aggiunse anche allora, che me ne dovea duplicare il diletto. L'amico Caluso mi aveva insperanzito, ch'egli verrebbe in Alsazia a passar quell'estate con noi; ed era questi l'ottimo degli uomini da me conosciuti, e 1'ultimo amico rimastomi dopo la morte del Gori. Dopo alcune settimane del nostro arrivo in Alsazia, verso il fin di luglio la mia donna ed io partimmo dunque espressamente per andare ad incontrare l'amico fino a Ginevra; indi ce ne ritornammo con esso per tutta la Svizzera sino alla nostra villa presso a Colmar; dove ebbi allora riunite tutte le mie piú care cose. Il primo discorso ch'io ebbi a tener con l'amico, fu, oltre ogni mia aspettazione, di affari domestici. Egli avea avuto dalla mia ottima madre un'incombenza assai strana, visto l'età mia, ed occupazioni, e il pensare mio. Quest'era una proposizione di matrimonio. Egli me la fece ridendo; ed io pure ridendo gliela negai: e si combinò la risposta da farsi alla mia amorosissima madre, che ci scusasse ambedue. Ma per dare un saggio dell'affetto e semplice costume di quella rispettabil donna, porrò qui in fondo di pagina11 la di lei lettera su questo soggetto.

Finito il trattato del matrimonio, ci sfogammo reciprocamente a cuore, l'amico ed io, coi discorsi delle amatissime lettere. Io mi sentiva veramente necessità di conversare su l'arte, di parlar italiano, e di cose italiane; tutte privazioni che da due anni mi si faceano sentire non poco; e ciò con assai grande mio scapito, nell'arte principalmente del verseggiare. E certo, se questi ultimi famosi uomini francesi, come Voltaire e Rousseau, avessero dovuto gran parte della loro vita andarsene erranti in diversi paesi in cui la loro lingua fosse stata ignota o negletta, e non avessero neppur trovato con chi parlarla, essi non avrebbero forse avuto la imperturbabilità e la tenace costanza di scrivere per semplice amor dell'arte e per mero sfogo, come faceva io, ed ho fatto poi per tanti anni consecutivi, costretto dalle circostanze di vivere e conversare sempre con barbari; che tale si può francamente denominare tutta l'Europa da noi, quanto alla letteratura italiana; come lo è pur troppo tuttavia, e non poco, una gran parte della stessa Italia, sui nescia. Che se si vuole anche per gl'italiani scrivere egregiamente, e che si tentino versi in cui spiri l'arte del Petrarca e di Dante, chi oramai in Italia, chi è che veramente e legga ed intenda e gusti e vivamente senta Dante e il Petrarca? Uno in mille, a dir molto. Con tutto ciò, io immobile nella persuasione del vero e del bello, antepongo d'assai (ed afferro ogni occasione di far tal protesta) di gran lunga antepongo di scrivere in una lingua quasi che morta, e per un popolo morto, e di vedermi anche sepolto prima di morire, allo scrivere in codeste lingue sorde e mute, francese ed inglese, ancorché dai loro cannoni ed eserciti elle si vadano ponendo in moda. Piuttosto versi italiani (purché ben torniti) i quali rimangano per ora ignorati, non intesi, o scherniti; che non versi francesi mai, od inglesi, o d'altro simil gergo prepotente, quando anche ne dovessi immediatamente esser letto, applaudito, ed ammirato da tutti. Troppa è la differenza dal suonare la nobile e soave arpa ai propri orecchi, ancorché nessuno ti ascolti, al suonare la vil cornamusa, ancorché un volgo intero di orecchiuti ascoltanti ti faccia pur plauso solenne.

Torno all'amico, con cui di questi e simili sfoghi mi occorreva spesso di fare, il che mi riusciva di sommo sollievo. Ma poco durò quella mia nuova ed intera felicità, di passare quei beati giorni tra cosí amate e degne persone. Un accidente occorso all'amico venne a sturbare la nostra quiete. Cavalcando egli meco fece una caduta, in cui si slogò il pugno. Da prima credei rotto il braccio, e anche peggio; onde me ne rimescolai fortemente, e tosto al di lui male si aggiunse il mio proprio, ma di gran lunga maggiore. Mi assalí due giorni dopo una dissenteria ferocissima, che andò ostinatamente crescendo, che al decimoquinto giorno, non essendo piú entrato nel mio stomaco altro che acqua gelata, e le pestilenziali evacuazioni oltrepassando il numero di ottanta nelle ventiquattro ore, mi ritrovai ridotto presso che in fine, senza pure aver quasi punto febbre. La mancanza del calor naturale era tale, che certe fomente di vino aromatizzato che mi facevano su lo stomaco e ventricolo per rendere una qualche attività a quelle parti spossate, ancor che esse fomente fossero bollenti a segno che i famigliari nel maneggiarle vi si pelassero le mani, ed io il corpo nell'applicarmele, con tutto ciò che mi parean sempre pochissimo calde, e d'altro non mi doleva che della loro freddezza. Non v'era piú vita nel mio individuo, altro che nel capo, il quale indebolito , ma chiarissimo rimanevami. Dopo i quindici giorni il male allentò e adagio adagio retrocedendo, verso il trentesimo giorno le evacuazioni erano però ancora oltre venti nelle ventiquattro ore. Mi trovai finalmente libero dopo sei settimane, ma ischeletrito e annichilato in tal modo, che per altre quattro settimane in circa, quando mi si dovea rifar il letto, mi levavano di peso per traspormi in un altro finché fossi riportato nel primo.

Io veramente non credei di poterla superare. Doleami assai di morire, lasciando la mia donna, l'amico, ed appena per cosí dire abbozzata quella gloria, per cui da dieci e piú anni io aveva tanto delirato, e sudato; che io benissimo sentiva che di tutti quegli scritti ch'io lascierei in quel punto, nessuno era fatto e finito come mi parea di poterlo fare e finire, avendone il dovuto tempo. Mi confortava per altra parte non poco, giacché morir pur dovea, di morire almen libero, e fra le due piú amate persone ch'io m'avessi, di cui mi pareva d'avere e di meritare l'amore e la stima, e di morir finalmente innanzi di aver provato tanti altri mali fisici che morali, a cui si va incontro invecchiando. Io aveva comunicato all'amico tutte le mie intenzioni circa alla stampa già avviata delle tragedie, e le avrebbe fatte continuare egli in mia vece. Mi sono poi ben convinto in appresso, quando io fui all'atto pratico di quella stampa che durò poi quasi tre anni, che atteso l'assiduo, e lunghissimo, e tediosissimo lavoro che mi vi convenne di farvi sopra le prove, se poco era il fatto sino a quel punto, ove fossi mancato io, quello che lasciava sarebbe veramente stato un nulla, ed ogni fatica precedente a quella dello stampare era intieramente perduta, se quest'ultima non sopravveniva per convalidarla. Cotanto il colorito e la lima si fanno parte assolutamente integrante d'ogni qualunque poesia.

Piacque al destino, ch'io scampassi per allora, e che le mie tragedie ricevessero da me poi quel compimento ch'io era in grado di dar loro; e di cui forse (s'elle hanno gratitudine) potranno contraccambiarmi col tempo non lasciando totalmente perire il mio nome.

Guarii, come dissi, ma a stento; e rimasi cosí indebolito anche della mente, che tutte le prove delle tre prime tragedie, che successivamente nello spazio di circa quattro mesi in quell'anno mi passarono sotto gli occhi, non ricevettero da me né la decima parte delle emendazioni ch'avrei dovuto farvi. Il che fu poi in gran parte cagione, che due anni dopo, finito di stamparle tutte, ricominciai da capo a ristampar quelle prime tre; a solo fine di soddisfare all'arte e a me stesso; e forse a me solo; che pochissimi al certo vorranno o sapranno badare alle mutazíoni fattevi quanto allo stile; le quali, ciascuna per sé sono inezie; tutte insieme, son molte e importanti, se non per ora, col tempo.

 

 

 




11 Vedi appendice undicesima.






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