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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO DECIMONONO

Principio dei tumulti di Francia, i quali sturbandomi in piú maniere, di autore mi trasformano in ciarlatore. Opinione mia sulle cose presenti e future di questo regno.

 

Dall'aprile dell'anno 1789 in appresso, io era vissuto in molte angustie d'animo, temendo ogni giorno che un qualche di quei tanti tumulti che insorgevano ogni giorno in Parigi dopo la convocazione degli Stati Generali, non mi impedisse di terminare tutte quelle mie edizioni tratte quasi al fine, e che non dovessi dopo tante e improbe spese e fatiche affondare alla vista del porto. Mi affrettava quanto piú poteva; ma cosí non facevano gli artefici della tipografia del Didot, che tutti travestitisi in politici e liberi uomini, le giornate intere si consumavano a leggere gazzette e far leggi, in vece di comporre, correggere, e tirare le dovute stampe. Credei d'impazzarvi di rimbalzo. Fu dunque immensa la mia soddisfazione, quando pure arrivò quel giorno, in cui finite, imballate, e spedite in Italia che altrove, furono le tanto sudate tragedie. Ma non fu lunga quella contentezza, perché le cose andando sempre peggio, scemando ogni giorno la sicurezza e la quiete in questa Babilonia, e accrescendosi ogni giorno il dubbio, e i sinistri presagi per l'avvenire, chi ci ha che fare con questi scimiotti, come disgraziatamente siamo nel caso la mia donna che io, è costretto di temer sempre, non potendo mai finir bene.

Io dunque oramai da piú d'un anno vo tacitamente vedendo e osservando il progresso di tutti i lagrimevoli effetti della dotta imperizia di questa nazione, che di tutto può sufficientemente chiacchierare, ma nulla può mai condurre a buon esito, perché nulla intende il maneggio degli uomini pratico; come acutamente osservò già e disse il nostro profeta politico, Machiavelli. Laonde io addolorato profondamente, perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata, e posta in discredito da questi semifilosofi; stomacato del vedere ogni giorno tanti mezzi lumi, tanti mezzi delitti, e nulla in somma d'intero se non se l'imperizia d'ogni parte; atterrito finalmente dal vedere la prepotenza militare, e la licenza e insolenza avvocatesca posate stupidamente per basi di libertà; io null'altro oramai desidererei, che di poter uscire per sempre di questo fetente spedale, che riunisce gli incurabili e i pazzi. E già fuor ne sarei, se la miglior parte di me stesso non vi si trovasse disgraziatamente per lei intralciata dalle sue circostanze. Istupidito dunque io pure dal perenne dubitare e temere, da quasi un anno che son finite le tragedie, piuttosto vegetando che vivendo, strascino assai male i miei giorni; ed isterilitomi anche non poco il cervello con quasi tre anni di continuo correggere e stampare, a nessuna lodevole occupazione mi so, né posso rivolgere. Ho intanto ricevuto, e vo ricevendo da molte parti notizia, esservi giunta l'edizione delle mie tragedie; e pare che trovino smercio, e non dispiacciano. Ma siccome le nuove mi sono date da persone piuttosto amiche mie, o benevole, non me ne lusingo gran fatto. Ed in fine mi sono proposto fra me e me, di non accettarelode, né biasimo, se non mi recano e l'uno e l'altro il loro perché; e voglio dei perché luminosi, che ridondino in utile dell'arte mia e di me. Ma di questi perché pur troppo pochi se ne raccapezza, e nessuno finora me n'è pervenuto. Onde tutto il rimanente reputo per non accaduto. Queste cose, benché io le sapessi già prima benissimo, non mi hanno però fatto mai risparmiare né la fatica, né il tempo, per fare il meglio quant'era in me. Tanto piú lode ne riceveranno forse le mie ossa col tempo, poiché io con tale tristo disinganno innanzi agli occhi, ho pure ostinatamente persistito a far bene piú assai che a far presto, non mi piegando a corteggiare mai altri che il vero.

Quanto poi alle sei mie diverse opere stampate in Kehl, non voglio pubblicare per ora altro che le due prime, cioè l'America libera, e la Virtú sconosciuta; riserbando l'altre a tempi men burrascosi, ed in cui non mi possa esser data la vile taccia, che non mi par meritare, di aver io fatto coro con i ribaldi, dicendo quel ch'essi dicono, e che pur mai non fanno, né fare saprebbero né potrebbero. Con tutto ciò ho stampate quelle opere, perché l'occasione, come dissi, mi v'invitò; e perché son convinto, che chi lascia dei manoscritti non lascia mai libri, nessun libro essendo veramente fatto e compiuto s'egli non è con somma diligenza stampato, riveduto, e limato sotto il torchio, direi, dall'autore medesimo. Il libro può anche non esser fattocompito, a dispetto di tutte queste diligenze; pur troppo è cosí; ma non lo può certo essere veramente, senz'esse.

Il non aver dunque per ora altro che fare; l'aver molti tristi presentimenti; e il credermi (lo confesserò ingenuamente) di avere pur fatto qualche cosa in questi quattordici anni; mi hanno determinato di scrivere questa mia vita, alla quale per ora fo punto in Parigi, dove l'ho stesa in età di quarantuno e mesi, e ne termino il presente squarcio, che sarà certo il maggiore, il 27 maggio dell'anno 1790. Né penso di rileggere piúguardare queste mie ciarle, fin presso agli anni sessanta, se ci arriverò, età in cui avrò certamente terminata la mia carriera letteraria. Ed allora, con quella freddezza maggiore che portano seco i molti anni, rivedrò poi questo scritto, e vi aggiungerò il conto di quei dieci o quindici anni all'incirca, che avrò forse ancora impiegati in comporre, o applicare. Se io verrò ad eseguire i due o tre diversi generi in cui fo disegno di provare le mie ultime forze, aggiungerò allora quegli anni in ciò impiegati, a questa quarta epoca della virilità; se no, nel ripigliare questa mia confession generale, incomincierò da quegli anni miei sterili la quinta epoca; della mia vecchiaia e rimbambimento, la quale, se punto avrò senno ancora e giudizio, brevissimamente, siccome cosa inutile sotto ogni aspetto, la scriverò.

Ma se io poi in questo frattempo venissi a morire, che è il piú verisimile; io prego fin d'ora un qualche mio benevolo, nelle cui mani venisse a capitar questo scritto, di farne quell'uso che glie ne parrà meglio. S'egli lo stamperà tal quale, vi si vedrà, spero, l'impeto della veracità e della fretta ad un tempo; cose che portan seco del pari la semplicità e l'ineleganza nello stile. Né, per finire la mia vita, quell'amico vi dovrà aggiunger altro di suo, se non se il tempo il luogo ed il modo in cui sarò morto. E quanto alle disposizioni dell'animo mio in quel punto, l'amico potrà accertare arditamente in mio nome il lettore, che troppo conoscendo questo fallace e vuoto mondo, nessuna altra pena avrò provato lasciandolo, se non se quella di abbandonarvi la donna mia; come altresí fin ch'io vivo, in lei sola e per lei sola vivendo oramai, nessun pensiero veramente mi scuote e atterrisce, fuorché il timore di perderla: né d'altra cosa io supplico il cielo, che di farmi uscir primo di queste mondane miserie.

Ma se poi l'amico qualunque a cui capitasse questo scritto, stimasse bene di arderlo, egli farà anche bene. Soltanto prego, che se diverso da quel ch'io l'ho scritto gli piacesse di farlo pubblico, egli lo raccorcisca e lo muti pure a suo piacimento quanto all'eleganza e lo stile, ma dei fatti non ne aggiunga nessuni, né in verun modo alteri i già descritti da me. Se io, nello stendere questa mia vita, non avessi avuto per primo scopo l'impresa non volgarissima di favellar di me con me stesso, di specchiarmi qual sono in gran parte, e di mostrarmi seminudo a quei pochi che mi voleano o vorranno conoscere veramente; avrei saputo verisimilmente anch'io restringere il sugo, se alcun ve n'ha, di questi miei quarantun anni di vita in due o tre pagine al piú, con istudiata brevità ed orgoglioso finto disprezzo di me medesimo taciteggiando. Ma io allora avrei voluto in ciò piú assai ostentare il mio ingegno, che non disvelare il mio cuore, e costumi. Siccome dunque all'ingegno mio (o vero o supposto ch'ei sia) ho ritrovato bastante sfogo in tante altre mie opere, in questa mi son compiaciuto di darne uno piú semplice, ma non meno importante, al cuor mio, diffusamente a guisa di vecchio su me medesimo, e di rimbalzo su gli uomini quali soglion mostrarsi in privato, chiacchierando.


 




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