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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO VIGESIMONONO

Seconda invasione. Insistenza noiosa del general letterato. Pace tal quale, per cui mi scemano d'alquanto le angustie. Sei commedie ideate ad un parto.

 

Appena per qualche mesi aveva l'Italia un poco respirato dal giogo, e ruberie francesi, quando la favolosa battaglia di Marengo nel giugno del 1800, diede in poche ore l'Italia tutta in preda di costoro, chi sa per quanti anni. Io la sentiva quanto e piú ch'altri, ma piegando il collo alla necessità, tirava a finire le cose mie senza piú punto curare per cosí dire un pericolo, dal quale non m'era divezzato ancora, né oramai, visto l'instabilità di codeste sozzure politiche, me ne divezzerò mai piú. Assiduamente dunque lavorando sempre a ben ridurre e limare le mie quattro traduzioni greche, e null'altro poi facendo che proseguire ardentemente gli studi troppo tardi intrapresi, strascinava il tempo. Venne l'ottobre, e il 15 d'esso, ecco di nuovo inaspettatamente in tempo di tregua fissata con l'imperatore, invadono i francesi di nuovo la Toscana, che riconoscevano tenersi pel granduca, col quale non erano in guerra. Non ebbi tempo questa volta di andare in villa come la prima, e bisognò sentirli e vederli, ma non mai altro, s'intende, che nella strada. Del resto la maggior noia e la piú oppressiva, cioè l'alloggio militare, venni a capo presso il comune di Firenze di farmene esentare come forestiere, ed avendo una casa ristretta e incapace. Assoluto di questo timore che era il piú incalzante e tedioso, del resto mi rassegnai a quel che sarebbe. Mi chiusi per cosí dire in casa, e fuorché due ore di passeggiata a me necessarie, che faceva ogni mattina nei luoghi piú appartati e soletto, non mi facea mai vedere, né desisteva dalla piú ostinata fatica.

Ma se io sfuggiva costoro, non vollero essi sfuggire me, e per mia disgrazia il loro generale comandante in Firenze, pizzicando del letterato, volle conoscermi, e civilmente passò da me una, e due volte, sempre non mi trovando, che già avea provvisto di non essere repperibile mai; né volli pure rendere garbo per garbo col restituir per polizza la visita. Alcuni giorni dopo egli mandò ambasciata a voce, per sapere in che ore mi si potrebbe trovare. Io vedendo crescere l'insistenza, e non volendo commettere ad un servitor di piazza la risposta in voce, che potea venire o scambiata o alterata, scrissi su un fogliolino; che Vittorio Alfieri, perché non seguisse sbaglio nella risposta da rendersi dal servo al signor generale, mettea per iscritto: che se il generale in qualità di comandante di Firenze intimavagli di esser da lui, egli ci si sarebbe immediatamente costituito, come non resistente alla forza imperante, qual ch'ella si fosse; ma che se quel volermi vedere era una mera curiosità dell'individuo, Vittorio Alfieri, di sua natura molto selvatico non rinnovava oramai piú conoscenza con chicchesia, e lo pregava quindi di dispensarnelo. Il generale rispose direttamente a me due parole in cui diceva che dalle mie opere gli era nata questa voglia di conoscermi, ma che ora vedendo questa mia indole ritrosa, non ne cercherebbe altrimenti. E cosí fece; e cosí mi liberai di una cosa per me piú gravosa e accorante, che nessun altro supplizio che mi si fosse potuto dare.

In questo frattempo il già mio Piemonte, celtizzato anch'egli, scimmiando ogni cosa dei suoi servipadroni, cambiò l'Accademia sua delle Scienze, già detta Reale, in un Istituto Nazionale a norma di quel di Parigi, dove avean luogo, e le belle lettere, e gli artisti. Piacque a coloro, non so quali si fossero (perché il mio amico Caluso si era dimesso del segretariato della già Accademia), piacque dico a coloro di nominarmi di codesto Istituto, e darmene parte con lettera diretta. Io prevenuto già dall'abate, rimandai la lettera non apertala, e feci dire in voce dall'abate che io non riceveva tale aggregazione; che non voleva essere di nessuno, e massimamente d'una donde recentemente erano stati esclusi con animosa sfacciataggine, tre cosí degni soggetti, come il cardinale Gerdil, il conte Balbo, ed il cavalier Morozzo, come si può vedere dalle qui annesse17 lettere dell'amico Caluso, non adducendo di ciò altra cagione, fuorché questi erano troppo realisti. Io non sono mai stato, né sono realista, ma non perciò son da essere misto con tale genia; la mia repubblica non è la loro, e sono, e mi professerò sempre d'essere in tutto quel ch'essi non sono. E qui pure pien d'ira pel ricevuto affronto, mi spergiurai rimando quattordici versi su tal fatto, e li mandai all'amico; ma non ne tenni copia, né questi né altri che l'indegnazione od altro affetto mi venisse a strappar dalla penna, non registrerò oramai piú fra le mie già troppe rime.

Non cosí aveva io avuto la forza di resistere nel settembre dell'anno avanti ad un nuovo (o per dir meglio) ad un rinnovato impulso naturale fortissimo, che mi si fece sentire per piú giorni, e finalmente, non lo potendo cacciare, cedei. E ideai in iscritto sei commedie, si può dire ad un parto solo. Sempre avea avuto in animo di provarmi in quest'ultimo arringo, ed avea fissato di farne dodici, ma i contrattempi, le angustie d'animo, e piú d'ogni cosa lo studio prosciugante continuo di una immensamente vasta lingua, qual è la greca, mi aveano sviato e smunto il cervello, e credeva oramai impossibile ch'io concepissi piú nulla, né ci pensava neppure. Ma, non saprei dir come nel piú tristo momento di schiavitú, e senza quasi probabilità, né speranza di uscirne, né d'aver tempo io piú, né mezzi per eseguire, mi si sollevò ad un tratto lo spirito, e mi riaccese faville creatrici. Le prime quattro commedie adunque, che son quasi una divisa in quattro, perché tendenti ad uno scopo solo, ma per mezzi diversi, mi vennero ideate insieme in una passeggiata, e tornando ne feci l'abbozzo al solito mio. Poi il giorno dopo fantasticandovi, e volendo pur vedere se anche in altro genere ne potrei fare, almeno una per saggio, ne ideai altre due, di cui la prima fosse di un genere anche nuovo per l'Itaha, ma diverso dalle quattro, e la sesta poi fosse la commedia mera italiana dei costumi d'Italia quali sono adesso; per non aver taccia di non saperli descrivere. Ma appunto perché i costumi variano, chi vuol che le commedie restino, deve pigliar a deridere, ed emendare l'uomo; ma non l'uomo d'Italia, piú che di Francia o di Persia; non quello del 1800, piú che quello del 1500, o del 2000, se no perisce con quegli uomini e quei costumi, il sale della commedia e l'autore. Cosí dunque in sei commedie io ho creduto, o tentato di dare tre generi diversi di commedie. Le quattro prime adattabili ad ogni tempo, luogo, e costume; la quinta fantastica, poetica, ed anche di largo confine, la sesta nell'andamento moderno di tutte le commedie che si vanno facendo, e delle quali se ne può far a dozzina imbrattando il pennello nello sterco che si ha giornalmente sotto gli occhi: ma la trivialítà d'esse è molta; poco, a parer mio, il diletto, e nessunissimo utile. Questo mio secolo, scarsetto anzi che no d'invenzione, ha voluto pescar la tragedia dalla commedia, praticando il dramma urbano, che è come chi direbbe l'epopea delle rane. Io all'incontro che non mi piego mai se non al vero, ho voluto cavare (con maggiore verisimiglianza mi credo) dalla tragedia la commedia; il che mi pare piú utile, piú divertente, e piú nel vero; poiché dei grandi e potenti che ci fan ridere si vedono spesso; ma dei mezzani, cioè banchieri avvocati, o simili, che si facciano ammirare non ne vediamo mai; ed il coturno assai male si adatta ai piedi fangosi. Comunque sia l'ho tentato; il tempo, ed io stesso rivedendole giudicherò poi se debbano stare, o bruciarsi.

 

 

 




17 Vedi appendice diciassettesima.






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