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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO TRIGESIMOPRIMO

 

Intenzioni mie su tutta questa seconda mandata di opere inedite.

Stanco, esaurito, pongo qui fine ad ogni nuova impresa; atto piú a disfare, che a fare,

spontaneamente esco dall'epoca quarta virile, ed in età di anni cinquantaquattro e mezzo

mi do per vecchio, dopo ventotto anni di quasi continuo inventare, verseggiare,

tradurre, e studiare - Invanito poi bambinescamente dell'avere quasi che spuntata

la difficoltà del greco, invento l'ordine di Omero, e me ne creo cavaliero.

 

Ed eccomi, s'io non erro, al fine oramai di queste lunghe e noiose ciarle. Ma se io avea fatte o bene o male tutte le surriferite cose, mi conveniva pur dirle. Sicché se io sono stato nimio nel raccontare, la cagione n'è stata l'essere stato troppo fecondo nel fare. Ora le due anzidette malattie in queste due ultime estati, mi avvisano ch'egli è tempo di finire e di fare e di raccontare. Onde qui pongo termine all'epoca quarta, essendo ben certo che non voglio piú, né forse potrei volendo, creare piú nulla. Il mio disegno si è di andare sempre limando e le produzioni, e le traduzioni, in questi cinque anni e mesi che mi restano per giungere agli anni sessanta, se Iddio vuole che ci arrivi. Da quelli in poi, se li passo, mi propongo, e comando a me stesso di non fare piú nulla affatto, fuorché continuare (il che farò finché ho vita), i miei studi intrapresi. E se nulla ritornerò su le mie opere, sarà per disfare, o rifare (quanto all'eleganza), ma non mai per aggiungere cosa che fosse. Il solo trattato aureo Della vecchiaia di Cicerone, tradurrò ancora dopo i sessanta anni; opera adattata all'età, e la dedicherò alla mia indivisibile compagna, con cui tutti i beni o mali di questa vita ho divisi da venticinque e piú anni, e sempre piú dividerò.

Quanto poi allo stampare tutte queste cose che mi trovo, e troverò fatte, ai sessanta anni, non credo oramai piú di farlo; perché troppa è la fatica; e perché stando come fo in governo non libero, mi toccherebbe a soffrire delle revisioni, e a questo non mi assoggetterei mai. Lascierò dunque dei puliti e corretti manoscritti, quanto piú potrò e saprò, di quell'opere che vorrò lasciare credendole degne di luce; brucierò l'altre; e cosí pure farò della vita ch'io scrivo, riducendola a pulimento, o bruciandola. Ma per terminare oramai lietamente queste serie filastrocche, e mostrare come già ho fatto il primo passo dell'epoca quinta di rimbambinare, non nasconderò al lettore per farlo ridere, una mia ultima debolezza di questo presente anno 1803. Dopo ch'ebbi finito di verseggiare le commedie, credutele in salvo e fatte, mi sono sempre piú figurato e tenuto di essere un vero personaggio nella posterità. Dopo poi che continuando con tanta ostinazione nel greco, mi son visto, o creduto vedere, in un certo modo padrone di interpretare da per tutto a prima rivista, Pindaro, che i tragici, e piú di tutti il divino Omero, in traduzione letterale latina, che in traduzione sensata italiana, son entrato in un certo orgoglio di me di una fatta vittoria riportata dai quarantasette ai cinquantaquattro anni. Onde mi venne in capo, che ogni fatica meritando premio, io me lo dovea dare da me, e questo dovea essere decoro, ed onore, e non lucro. Inventai dunque una collana, col nome incisovi di ventitré poeti antichi che moderni, pendente da essa un cammeo rappresentante Omero, e dietrovi inciso (ridi o lettore) un mio distico greco; il quale pongo qui per nota ultima18, colla traduzione in un distico italiano. l'uno che l'altro li ho fatti prima vedere all'amico Caluso, il greco, per vedere se non v'era barbarismo, solecismo, od errore di Prosodia; l'italiano, perch'ei vedesse se avea temperato nel volgare la forse troppa impertinenza del greco; che già si sa, nelle lingue poco intese l'autore può parlar di sé piú sfacciatamente che nelle volgari. Approvati l'uno e l'altro dall'amico, li registro qui, perché non si smarriscano. Quanto poi alla collana effettiva, l'eseguirò quanto prima, e la farò il piú ricca che potrò, in gioielli, che in oro, e in pietre dure. E cosí affibbiatomi questo nuovo ordine, che meritatolmi o no, sarà a ogni modo l'invenzione ben mia, s'egli non ispetterà a me, l'imparziale posterità lo assegnerà poi ad altri che piú di me se lo sia meritato. A rivederci, o lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo capitolo ultimo della mia agonizzante virilità.

 

Vittorio Alfieri

 

A 14 maggio 1803. Firenze.


 




18 Vedi appendice diciottesima.






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