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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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APPENDICE DICIANNOVESIMA

 

LETTERA DEL SIGNOR ABATE DI CALUSO

qui aggiunta a dar compimento all'opera col racconto della morte dell'autore.

 

Alla Preclarissima Signora Contessa d'Albany

 

Pregiatissima signora Contessa.

 

In corrispondenza al favore compartitomi di darmi a leggere le carte, dove l'incomparabile nostro amico avea preso a scrivere la propria vita, debbo palesargliene il mio parere, e il fo colla penna perché favellando potrei con molte piú parole dir meno. Conoscendo l'ingegno e l'animo di quell'uomo unico, io ben m'aspettava di trovare ch'egli avesse vinta in qualche modo suo proprio la difficultà somma di parlar di sé lungamente senza inezie stucchevoli, né menzogne; ma egli ha superata ogni mia espettazione coll'amabile sua schiettezza e sublime semplicità. Felicissima n'è la naturalezza del quasi negletto stile; e maravigliosamente rassomigliante e fedele riesce l'immagine, ch'egli ne lascia di sé scolpita, colorita, parlante. Vi si scorge eccelso qual era, e singolare, ed estremo, come per naturali disposizioni, cosí per opera posta in ogni cosa, che sembrata gli fosse non indegna de' generosi affetti suoi. Che se perciò spesso egli andava al troppo, si osserverà facilmente che da qualche lodevole sentimento ne procedevano sempre gli eccessi, come dall'amicizia quello ch'io scorgo dov'ei mi commenda.

Però a tanti motivi, che abbiamo di dolerci che la morte ce l'abbia rapito tosto, si aggiunge che sia questa sua Vita fra i molti scritti di lui rimasti bisognosi piú o meno della sua lima, che non sarebbele mancata s'egli giungeva al sessantesimo anno, in cui s'era proposto di ripigliarla in mano e ridurla a pulimento, o bruciarla. Ma bruciata non l'avrebb'egli; come non possiamo aver cuore di bruciarla ora noi, che abbiamo in essa lui ritratto al vivo, e di tanti suoi fatti e particolarità certo ed unico documento. Lodo pertanto, ch'Ella prosegua, Signora Contessa, a custodirne questi fogli gelosamente, mostrandoli solo a qualche persona molto amica e discreta, che ne ritragga le notizie opportune a tesser la storia di quel grand'uomo. La quale non ardisco imprendere a scriver io, e me ne duole assai: ma non tutti possiamo ogni cosa, ed io debbo ristringermi a notar qui comunque, ciò che sembrami convenire a compimento ed a scusa della narrazione lasciata imperfetta dall'amico. Ne sono le ultime righe del 14 Maggio 1803. Trarrò il seguito da quanto Ella me ne ha scritto, Signora Contessa, la quale avendo ad ogni cosa, che lui riguardava, tenuti ognora intenti non gli occhi solo e le orecchie, ma la mente e il cuore, ne ha presentissima pur troppo la ricordanza.

Stava adunque a quel tempo il Conte Alfieri attendendo a recar a buon termine le sue Commedie, e per sollievo e balocco talor pensando al disegno, ai motti, all'esecuzione della collana, ch'ei volea farsi, di Cavalier d'Omero. Ma già la podagra, com'ella solea nel mutar delle stagioni, eragli in Aprile sopravvenuta, e piú molesta, perché il trovava per l'assiduo studio quasi esausto di vegeto e salutar vigore, che la respingesse, e fissasse in alcuna delle parti esterne. Onde a reprimerla, o infievolirla almeno, considerando egli che già da alcun anno gli riusciva la digestione sul finire penosa e grave, si fisse in capo che ottimo partito fosse lo scemarsi il cibo, ch'egli usava pur modichissimo. Pensava che la podagra cosí non nutrita avesse a cedere; mentre lo stomaco non mai ripieno gli lasciava libera e chiara la mente all'applicazione sua ostinatissima. Invano la Signora Contessa amichevolmente ammonivalo, importunavalo, perché piú mangiasse, mentre egli a occhio veggente piú e piú immagrendo manifestava il bisogno di maggior nutrimento. Egli saldo nel suo proposito tutta quella state in eccessiva astinenza persisteva a lavorare con sommo impegno alle sue Commedie ogni giorno parecchie ore, temendo che non gli venisse meno la vita prima di averle perfezionate, senza voler perciò tralasciare alcun mai d'impiegarne su gli altrui libri non poche all'acquisto di maggior dottrina. Cosí via via distruggendosi con tanto piú risoluti sforzi quanto piú sentivasi venir manco, svogliato di ogni altra cosa che dello studio, omai sola dolcezza della stanca e penosa vita, ei pervenne ai 3 di Ottobre, nel qual alzatosi in apparenza di miglior salute e piú lieto che da gran tempo non solea, uscí dopo il quotidiano suo studio mattutino a fare una passeggiata in faeton [a giorno inoltrato, comunque prima di mezzogiorno, ndr.]. Ma poco andò che il prese un freddo estremo, cui volendo scuotere e riscaldarsi camminando a piedi, gli fu vietato da dolori di viscere. Onde a casa tornossene colla febbre, che fu gagliarda alcune ore, ma declinò sulla sera; e sebbene da principio da stimoli di vomito fosse molestato, passò la notte senza gran patimento, e il seguente non solo vestissi, ma fuori del suo quarto discese alla saletta solita per desinare. Né però quel poté mangiare; ma dorminne gran parte. Quindi passò inquieta la notte. Pur venuto il mattino dei 5, fattasi la barba, voleva uscir a prender aria; ma la pioggia glie l'impedí. La sera con piacere pigliò, come soleva, la cioccolata. Ma la notte, che veniva su i 6, fierissimi dolori di viscere gli sopraggiunsero, e come il dottore ordinò, gli furono posti a' piedi senapismi, i quali, quando incominciavano ad operare, egli si strappò via, temendo che impiagandogli le gambe gli togliessero per piú giorni il poter camminare. Tuttavia pareva la sera seguente star meglio, senza però porsi a letto; che nol credeva poter soffrire. Quindi la mattina dei 7 il medico suo ordinario ne volle chiamato un altro a consulta, il quale ordinò bagni e vescicatori alle gambe. Ma questi l'infermo non volle per non venir impedito dal poter camminare. Gli fu dato dell'oppio, che i dolori calmò, e gli fe' passare una notte assai tranquilla. Ma non però si pose a letto, né la quiete, che gli dava l'oppio, era senza qualche molestia d'immagini concitate in capo gravoso, cui nella veglia involontarie, come in sogno, si presentavano le ricordanze delle passate cose le piú vivamente impresse nella fantasia. Onde in mente gli ricorrevano gli studi e lavori suoi di trent'anni, e quello, di che piú si maravigliava, un buon numero di versi greci del principio d'Esiodo, ch'egli aveva letti una sola volta, gli venivano allora di filo ripetuti a memoria. Questo ei diceva alla Signora Contessa, che gli sedeva a lato. Ma non pare che per tutto ciò gli venisse in pensiero che la morte, la quale da lungo tempo egli era uso figurarsi vicina, allora imminente gli soprastasse. Certo almeno che niun motto a Lei ne fece, benché Ella nol lasciasse che al mattino, in cui alle sei ore egli prese, senza il parere dei medici, olio e magnesia, la quale dovette anzi nuocergli, imbarazzandogli gl'intestini, poiché verso le 8 fu scorto già già pericolare, e richiamata la Signora Contessa il trovò in ambascia, che il soffocava. Nondimeno alzatosi di sulla sedia andò ancora ad appressarsi al letto, e vi si appoggiò, e poco stante gli si oscurò il giorno, perdé la vista e spirò. Non si erano trascurati i doveri e conforti della Religione. Ma non si credeva il male cosí precipitoso, né alcuna fretta necessaria, onde il confessore chiamato non giunse a tempo. Ma non perciò dobbiamo credere che non fosse il Conte apparecchiato a quel passo, il cui pensiero avea frequente, che spessissimo ancora ne facea parola. Cosí la mattina del sabato 8 di Ottobre 1803 cotant'uomo ci fu tolto, oltrepassata di non molto la metà dell'anno cinquantesimo quinto dell'età sua.

 

Fu seppellito, dove tanti uomini celebri, in Santa Croce presso all'altare dello Spirito Santo, sotto a una semplice lapida, intanto che la Signora Contessa D'Albany, gli fa lavorare un condegno mausoleo da innalzarsi non lontano da quello di Michelangiolo. Già il Signor Canòva vi ha posto mano, e l'opera di egregio scultore sarà certamente egregia. Quali sieno stati i miei sentimenti sulla sua tomba l'ho espresso nei seguenti sonetti

 




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