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Vittorio Alfieri
Vita scritta da esso

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CAPITOLO TERZO.

Primi sintomi di carattere appassionato.

 

Ma qui mi occorre di notare un'altra particolarità assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato per lungo tempo, e molto piú serio in appresso. Le mie visite a quell'amata sorella erano sempre andate diradando, perché essendo sotto il maestro, e dovendo attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si era andata facendo sentire a poco a poco nell'assuefarmi ad andare ogni giorno alla chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei frati, e far tutte le cerimonie della messa cantata, processione e simili. In capo a piú mesi nonpensava piú tanto alla sorella, ed in capo a piú altri, non ci pensava quasi piú niente, e non desiderava altro che di esser condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la quale aveva circa nov'anni quando uscí di casa, non avea piú veduto altro viso di ragazza, né di giovane, fuorché certi fraticelli novizi del Carmine, che poteano avere tra i quattordici e sedici anni all'incirca, i quali coi loro roccetti assistevano alle diverse funzioni di chiesa; questi loro visi giovanili, e non dissimili da' visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto cuore a un di presso quella stessa traccia e quel desiderio di loro, che mi vi avea già impresso il viso della sorella. E questo insomma, sotto tanti e diversi aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi, e me ne accertai parecchi anni dopo, riflettendovi su; perché di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale. Ma questo mio innocente amore per quei novizi giunse tant'oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la messa con viso compunto ed angelico, ora coi turiboli incensando l'altare; e tutto assorto in codeste immagini, trascurava i miei studi, ed ogni occupazione, o compagnia, mi noiava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa il mio maestro, trovatomi solo in camera, cercai ne' due vocabolari latino e italiano l'articolo frati, e cassata in ambedue quella parola, vi scrissi Padri: cosí credendomi di nobilitare, o che so io d'altro, quei novizietti, ch'io vedeva ogni giorno, e da cui non sapeva assolutamente quello ch'io mi volessi. L'aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano la sola cagione per cui m'indussi a correggere quei dizionari: e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, né a tal cosa certamente pensando, non se n'avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest'inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell'uomo, non la troverà forse né tanto risibile né tanto puerile, quanto ella pare.

Da questi siffatti effetti d'amore ingnoto intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell'umor malinconico assai, che a poco a poco s'insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell'indole mia. Fra i sette ed ott'anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori dal mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile, dove eravi intorno intorno molt'erba. E tosto mi misi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingoiarne quanta piú ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, né come, né quando, che v'era un'erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure, seguendo cosí un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m'era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dall'insopportabile amarezza e crudità d'un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell'annesso giardino, dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente di tutta l'erba ingoiata, e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. Tornò frattanto il maestro, che di nulla si avvide, ed io nulla dissi. Poco dopo si dovè andare a tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere dopo gli sforzi del vomito, domandò insistendo e volle assolutamente sapere quel che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre piú punzecchiando i dolori di corpo, ch'io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere, ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedendomi in atto di patire, e poi le labbra verdiccie, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto, s'alza, si approssima a me, mi parla dell'insolito color delle labbra, m'incalza e sforza a rispondere, finchè vinto dal timore e dolore io tutto confesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero rimedio, e nessun altro male ne segue; fuorché per piú giorni fui rinchiuso in camera per castigo; e quindi nuovo pascolo, e fomento all'umor malinconico.

 

 

 




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